PREMESSA
Dovete scusarmi se sarò impreciso nel mio raccontare.
Da tempo i curiosi accadimenti capitatimi e che affastellano disordinatamente la mia memoria, sembrano pagine sfuggite a un fascicolo caduto dallo scaffale dove era stato riposto, pagine che ora giacciono sparpagliate sul pavimento di una stanza poco illuminata. Difficile rimetterle in ordine. Eppure, ciascuna di quelle pagine contiene immagini e parole che avrebbero senso solo nella ricostruzione logica e cronologica dei fatti che ho vissuto e che, pure essendo veri e reali, sembrano il ricordo confuso di sogni e deliri che sbiadiscono col nuovo giorno, dopo una notte tumultuosa.
1 – Da dove cominciamo? Dal principio, direte, ovvio, ma se non c’è un principio? No, ci deve essere. Forse potrei partire da un prima, cioè da quello che mi aveva portato a quella panchina. Ve ne parlerò dopo della panchina. Dunque, sono sempre stato, per carattere, un tipo scontroso, poco comunicativo, problematico fin dall’infanzia. Anche gli anni della mia vita da adulto erano stati opachi, con ben pochi momenti degni di nota. Diciamo che galleggiavo in una sorta di ibernamento autoimposto. Mi dicevo che, congelando ogni desiderio, annichilendo ogni slancio, allontanando ogni possibile interazione emotiva, quella studiata solitudine sarebbe stata la chiave per evitare ogni sicura sofferenza, avrei evitato situazioni amare e dolorose, o anche solo conflittuali, nonché l’aggravarsi della mia decennale gastrite. Beh, avevo ragione! Mi ero costruito un tran tran rassicurante, abitudini piccole e gratificanti, il contatto con pochi amici fidati, che condividevano con me il piacere di incontri rarefatti, senza troppe chiacchiere sul privato. Mi concedevo qualche svago, certo: il cinema per qualche film che valesse la pena di gustare sul grande schermo, qualche serata al ristorante o al pub, da solo o con quegli amici discreti di cui dicevo, l’ascolto dei vinili che avevo collezionato, e poi le passeggiate. Ecco, avevo scoperto il piacere, mai avuto in precedenza, di camminare di buon passo ma senza fretta, concedendomi qualche sosta, per scoprire o riscoprire angoli della mia città, che l’uso della macchina o dei mezzi pubblici mi aveva a lungo precluso. C’era un belvedere, in particolare, che amavo raggiungere dopo una corposa camminata in salita. Ci si arrivava salendo, appunto, stradine talora intervallate da scalinate che permettevano di tagliare qualche curva. Di solito sceglievo i gradini al ritorno, preferendo costeggiare le ringhiere delle strade a strapiombo sui muraglioni di contenimento della collina, strade che già offrivano, percorrendole, scorci panoramici davvero notevoli.
Mi sto dilungando. Questo perché, per riprendere la metafora dei fogli sparpagliati, mi stanno apparendo, mentre cerco di ricordare, immagini nitide e confuse a un tempo: vedo il mare, lo sporgersi di pini marittimi, lo svettare di qualche palma. E poi il traffico che, dall’alto, di sera o in qualche tardo pomeriggio quasi invernale, sembra persino poetico, con i fari delle auto che lasciano scie lunghe di luce come comete. E le finestre di quegli appartamenti sotto il livello della strada, con quei giardinetti soffocati dai muraglioni, che pure sono il respiro di qualche famigliola felice, se mai esistono famigliole felici. E i lampioni, che si accendono senza farsene accorgere, con una progressione luminosa discreta, più evidente nelle giornate fredde, quando il sole ha più urgenza di nascondersi alla nostra vista. E i colori, quelli delle case, che si vestono di un rosa sfacciato o di un giallo più caldo, quelli delle nuvole che si infuocano quando il tramonto vuole umiliare il giorno trascorso, quelli del mare, che sfoggia tavolozze umorali a seconda della cupezza o della serenità del cielo. E poi i visi intravisti dei frettolosi passanti distratti, delle donne sfigurate di stanchezza, che tornano a casa per stancarsi di più, dei ragazzi impertinenti e allegramente feroci, impegnati come sempre a dimostrare di essere pronti a prendere il posto di quegli adulti già grigi e sconfitti che si divertono a prendere in giro.
Tutto si mescola nella mia mente, particolari inutilmente precisi di un quadro che ancora non riesco a mettere a fuoco.
2 – Però sì, qualcosa, man mano, comincia a farsi più nitido. È una panchina. Sono sul belvedere. Ho dimenticato il giorno e l’ora, però vedo e percepisco quello che vedevo e percepivo in quel momento: l’aria è tiepida ma non calda, mi sembra di sentire il profumo del salino, il panorama di cui godo è magnifico. Deve essere quasi sera, perché il cielo e l’orizzonte marino sono rosati e l’azzurro sta incontrando le prime ombre violacee. Alle spalle della panchina ci sono gli alberi del belvedere, ne avverto il frusciare con la brezza del mare che sale fin lì. Dalla ringhiera che si affaccia sul vuoto del poggio, c’è un cannocchiale che consente una visione più ravvicinata del panorama, se si infila una monetina.
Una monetina.
Una monetina. ECCO! Questo è il principio! Sono seduto su una panchina di un belvedere, penso agli affari miei, o meglio, cerco di NON pensare agli affari miei, quando lo sguardo va casualmente alle mie scarpe impolverate e, a pochi centimetri di distanza da esse, vedo una monetina. 50 centesimi. La raccolgo e, nel farlo, entra nel mio campo visivo il cannocchiale di cui dicevo prima. Cosa mi prende non so, ma mi vedo mentre mi alzo e mi dirigo verso il cannocchiale, infilo la monetina e appoggio l’occhio per osservare meglio le navi che lasciano il porto e la darsena. Ma non vedo nessuna nave, nessun porto, nessuna darsena. Quello che viene ingrandito dalle lenti del cannocchiale è un condominio grigio di smog, del tutto anonimo, decisamente popolare, senza balconi, con finestre quadrate. Regolo l’oculare, ingrandisco un po’ e posso inquadrare meglio una di quelle finestre. Gli avvolgibili sono alzati, forse per fare entrare meglio l’ultima luce del giorno, anche se un neon è già acceso a illuminare il tinello, un banale tinello, con un angolo cottura, un tavolo, delle sedie, un divano. Ingrandisco ancora, sono preso da una curiosità quasi morbosa… le vite degli altri… mi hanno sempre affascinato, fin da piccolo. Un voyeur del quotidiano, di quelle banalità così fondamentali per costruirsi le giornate. Ma ecco che quell’improvvisato palcoscenico viene riempito da due personaggi, una donna e un bambino molto piccolo, avrà un anno, un anno e mezzo. La donna mette a sedere il piccino dal tavolo, su un seggiolone. Lei dev’essere la madre, lo capisco dalla tenerezza con cui guarda quel bimbo, da come gli parla, avvicinando il viso al suo. Potessi udire le parole… E invece non solo non sento nulla, ma – CLIC- anche la visuale si è oscurata: il tempo concesso da quella monetina per vivere la vita altrui è terminato. Mi frugo in tasca: niente. Mi pare di ricordare di aver speso gli ultimi spiccioli al mattino, per un caffè. Pazienza. Tanto è tardi, meglio tornare, ché la strada per casa è lunga.
3 – (Nero)
La luce della memoria si spegne. Cosa ho fatto nei giorni seguenti? Avevo ripensato a quel tardo pomeriggio? In un flash mi vedo in casa, sto ascoltando la radio mentre mi preparo qualcosa per cena. Sento qualcosa al notiziario. Qualcosa che mi turba e interrompe i miei gesti e mi fa entrare in un tempo sospeso. Ma cosa? Dove?
(Nero)
Sto di nuovo camminando. Mi sto inerpicando ancora su quelle strade in salita che portano al belvedere. Mi vedo mentre infilo la mano in tasca e con le dita gioco con la manciata di monetine che vi ho messo. Stavolta non mi guardo intorno. Voglio solo arrivare al belvedere e impossessarmi del cannocchiale panoramico. Sono fortunato: non c’è nessuno a infastidirmi. Mi dirigo verso il cannocchiale, ma prima mi affaccio alla ringhiera per cercare di capire dove sia quel palazzo grigio con le finestre quadrate. Non riesco a individuarlo. Vedo il mare, il porto, l’arteria principale del traffico cittadino, le case borghesi del primo novecento di quel bel quartiere che si arrampica sulla collina, i campanili delle tante chiese delle tante epoche attraversate dalla città… ma nessun casermone popolare da quel punto di osservazione. Non pongo altri indugi: infilo una monetina e avvicino l’occhio alla lente di osservazione. Non devo spostare il cannocchiale per trovare quello che cerco: eccola lì, a prima vista, la finestra quadrata. Ed ecco il bambino già seduto sul seggiolone. La donna fa volare il cucchiaio della pappa come un aeroplano diretto verso la bocca spalancata del bimbo, lo imbocca e ridono. La mamma prende le manine del piccolo e se le appoggia alle gote. CLIC. Il tempo dei cinquanta centesimi è già terminato.
Sento il tintinnio delle monetine nella tasca. Il metallo si scalda sotto le mie dita. Devo prendere altri 50 cent. Ma c’è qualcuno che viene verso di me, forse vuole vedere il panorama. Maledetto. Vado.
4 – (Nero)
Non dormo, non dormo, non dormo. E se dormo sogno quel maledetto cannocchiale. 50 centesimi – CLIC – 50 centesimi. Sento voci e rumori che non distinguo. CLIC. Mi sveglio sudato, angosciato, impaurito.
(Nero)
Mi vedo da tutt’altra parte, bevo, rido. Ma ho come un brusio in testa e quel suono: CLIC. Ho il cuore in gola. Perché?
(Nero)
Il cannocchiale sembra divenire più potente e preciso di sera in sera. Sono sempre soli quei due. A volte sul tavolo ci sono piccoli libri con figure grandi. Altre volte dei cubetti con pezzi di storie diverse in ogni faccia: il bimbo li mette uno sopra l’altro e ride quando la torre cade. La mamma, allora, mette a posto i grossi dadi per ricomporre l’immagine della favola e, nel farlo, la racconta con pazienza, larghi gesti e sorrisi. Il piccolo batte le manine, felice.
CLIC – 50 centesimi
Il neon è spento, l’avvolgibile è a mezz’altezza. No, aspetta! La luce si accende, ma posso vedere solo metà della scena. È entrata la donna, la vedo dalla vita in giù. Poi si siede al tavolo, accasciata, la testa nascosta tra le braccia, le spalle scosse da singhiozzi. Dov’è il bambino? Ho il cuore in gola. Perché?
(Nero)
Improvvisamente ricordo perfettamente cosa ho sentito nel notiziario: una giovane madre perde l’affido del figlio e si spara un colpo in testa per la disperazione.
CLIC – 50 centesimi
La donna si è alzata. Mi gira la testa. Sto urlando in silenzio. Io so cosa sta per succedere. È già successo e succederà ancora. Urlo “NO!” ma come negli incubi la mia voce è solo un gorgoglio soffocato. Ma mentre sento i sensi venirmi meno, accade qualcosa: la donna si ferma, va verso la finestra, tira su l’avvolgibile, si affaccia, alza il capo verso di me, come potesse vedermi. Mi sta vedendo: ha gli occhi nei miei. Il cannocchiale stringe l’inquadratura su quello sguardo. Mi sta chiamando, quello sguardo.
(Nero)
5 Ora sono seduto accanto a lei, sul mio seggiolone. Metto i dadi uno sopra l’altro, per costruire una torre, ma le mie manine incerte la fanno cadere. “Guarda, amore, mettiamoli così, vedi? Questa è la storia di quel mago che aveva un cannocchiale magico: con esso poteva vedere lo scorrere del tempo e fermarlo nel punto che desiderava…”.
CLIC.
(Nero)

Grazie mille, molto gentile 🙂
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Originale e bello questo racconto.Complimenti
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