Le storie della Scatolina

  • SCATOLINA
«La scatola era un universo, una poesia, congelata ai confini della esperienza umana.»
William Gibson

Una scatola magica che conserva bottoni, nastri, lettere, foto, spilli, gingilli; tracce e memorie, gioie e sofferenze, sogni e disillusioni, passaggi e partenze.

Un alternarsi inaccettabile di emozioni fragili e fortissime: dalla sofferenza più insopportabile all’illusione di felicità più intensa ed esaltante, dall’istante di intravista serenità al precipitare nel dolore senza speranza.

La magia della scatola? Anche se continui a riempirla, non è mai colma: questo l’incanto, questa la maledizione.

Flash di memoria: una bambina, con la febbre alta, sente la corposità dei molari, l’umidore metallico della lingua, la volta asciutta e gommosa del palato. Sente l’interno fisico di sé, grata per l’oblio restante. Ascolta il proprio corpo, mendicando il silenzio della mente.

Flash di giorni incomprensibili: una donna riservata è apparentemente attenta agli altri. Risponde se interrogata, restituisce il saluto, talora sorride. Ma sente suoni e brusii indistinti, ottusa in una confusione esterna/interna che la stordisce. Ascolta il vuoto, vede il silenzio, tocca il buio.

Così sprofonda (chissà dove), fingendo: la donna-scatolina che non s’apre mai, qui si socchiude e mostra il limite del suo sopportare che non c’è, il baratro dei pensieri che nasconde serrandosi, l’incubo dell’ineluttabilità che la uccide. Ma fuori l’ottone è lucido, lo smalto appena intaccato.

  • TRE GOMITOLI
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo ancora un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Eugenio Montale, La casa dei doganieri

Nella scatolina magica ci sono tre matasse di fili, tra loro aggrovigliati. Il tempo ne ha sbiadito i colori, uniformandoli in un intrico scialbo, e addipanarli non è facile impresa.

Ad ogni nodo da sciogliere, un’immagine da decifrare. Ad ogni svolta del filo attorno alle dita, una memoria da disvelare.

Il gomitolo rosa antico

Una bambina si tappa le orecchie per non sentire più le grida che costruiscono macerie nella stanza accanto alla sua. Urla in silenzio dentro sé: “vogliomorirevogliomorirevogliomorirevogliomorire” come una cantilena, una ninna nanna, sì, una ninna nanna per dormire, soltanto dormire, finalmente dormire e non sentire più niente, nessuna voce cara trasformata in una lama che accarezza crudele, che uccide sì, ma troppo lentamente. Con la tenera rosea punta della lingua, morsicata a sangue nel pianto, lecca il sale delle lacrime, ne impara il sapore, per riconoscerlo ancora.

Il gomitolo giallo oro

Un ragazzo dalle palpebre stanche e i ricci sfatti e sbiaditi, infila la testa in un sacchetto di plastica bianco e stringe, tenacemente stringe, senza più forza stringe, per non avere più la voglia insensata e insopprimibile di bucarsi le braccia, le mani, le gambe, la pancia, qualsiasi lembo di pelle o brandello di carne livida che ancora ricopre il suo corpo ossuto; per non vedere più sua madre – dolce ed altera, tenera e implacabile, impaurita e vinta, isolata e abbandonata – sfatta dall’angoscia del suo fallimento di moglie e di madre; per scappare dagli amici che ancora oggi gli hanno portato una dose in ospedale; per sfuggire al se stesso, bambino ridente, coi boccoli biondi, dorati come la vita sognata per lui, prigioniero per sempre nella stanza dei giochi di un inferno in maschera.

Il gomitolo bianco avorio

Una vecchia ha smesso da tempo di mangiare e si consuma, così come la vita – che ancora le si aggrappa alle ossa – le appare consumata, lisa come la veste che non cambia più. Non parla, non volge neppure il viso pallidissimo, ignorando chi la chiama ansioso, chi vorrebbe riavviarle quei fili bianchi e cincischiati che paiono staccarsi e volar via. Non si alza da quel letto antico che ancora si affossa e l’accoglie come se le fosse rimasto un corpo massiccio da far riposare. Ma oggi davvero il riposo le verrà incontro. La donna è trasparente, leggera, così leggera che può passare, facilmente e senza farsi troppo male, oltre la linea del tempo. Ha gli occhi aperti, le pupille opache, lo sguardo velato, ma vede bene l’assenza e le si accosta ansiosamente.

Tre gomitoli di un passato che torna, vinto dalla memoria e dal suo inesorabile ripetersi.

  • LETTERE DI VENTO
 “Ciò di cui non si può parlare, deve essere taciuto”
Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus

Nella scatolina magica sono raccolte lettere di vento.

Impalpabili ma sferzanti, leggere ma capaci di dare brividi o inumidire gli occhi. Sono state vergate, lette, raccolte e sfogliate senza bisogno di aprirle o spedirle, perché sempre è stato più facile pensarle che scriverle, così come sempre è stato più semplice tacere che parlare. Almeno, per lei , la donna-scatolina – è così. Soprattutto ogni volta in cui non riesce – neppure con la penna o la tastiera – a trovare le parole giuste per farsi comprendere. Talora prova, in modo patetico e confusionario, a balbettare sottovoce che c’è qualcosa che la tormenta e che la fa stare male, qualcosa che non le piace, che teme, che subisce, di cui vorrebbe liberarsi, qualcosa che non sa affrontare. Pesi che trascina, ma che non vuole sentire, che cerca di soffocare col silenzio, ascoltando solo la voce altrui. Eppure ogni tanto anche la voce piccola del suo sé esce fuori, comprende però subito l’errore commesso e si spegne, arresa al caos esterno e alla propria insignificanza consapevole. Talora prova a razionalizzare e ad esporre con pacatezza la tempesta che la scuote. Tenta di far ordine nella scatolina, nel tentativo di conoscerne davvero il contenuto che, prima che agli altri, a lei stessa sfugge. Ma nella scatolina l’ordine non può essere fatto perché, una volta aperta, le lettere di vento volano via, lasciando negli occhi impronte di disordinato malessere.

Nella scatolina magica sono raccolte lettere di vento.

Anche quando – sfuggite imprudentemente – si spingono lontano, rimangono dentro: cerchi dell’anima che segnano gli anni.

  • NESSUNO
Eccovi un’anima
deserta
uno specchio impassibile
G.Ungaretti, Distacco

Nessuno, non vuole vedere nessuno.

La chiamano, la sollecitano, con po’ di irritazione, con un’ombra insopportabile di compatimento, con l’ammiccante sottinteso alla depressione che sempre incombe, alla situazione che certo accusa, all’introversione che tutto spiega: offrono una visita di circostanza, un’uscita che distrae, un incontro che conforta.

Nessuno, non vuole vedere nessuno.

Accampa scuse, prova a sviare, balbetta inconvenienti, promette ripensamenti. Ma poi soccombe, perché – ancora – non sa dire di no, non riesce a essere forte delle sue decisioni, non può imporre ciò che vuole ( o non vuole) lei a ciò che esigono gli altri.

Nessuno, non vuole vedere nessuno.

Bisogna ricevere, occorre ospitare, è necessario uscire, è essenziale incontrarsi, vedersi, parlare, raccontare, sorridere, divertirsi, mangiare, bere. E’ per il suo bene, certo. E’ per riguardo nei confronti di chi tanto si adopera per lei. E’ il normale svolgersi dei ruoli. E’ civiltà, decenza, educazione.

Nessuno, non vuole vedere nessuno.

E invece deve farlo.

E l’insofferenza cresce.

E la maschera si indurisce.

E la menzogna si esercita in virtuosistica apparenza.

E la scatolina si sigilla perché nulla del suo contenuto possa essere intravisto.

  • PESANTEZZA
Tutto sarà come al tempo lontano.
L’anima sarà semplice com’era,
e a te verrà, quando vorrai leggera
come vien l’acqua al cavo de la mano.
G.D’Annunzio, Consolazione

Tutto ciò che la riguarda è connotato da un’insostenibile pesantezza.

Pesante è la massa di carne che trascina, le braccia che, inerti, non riesce a sollevare, il capo che ciondola tetro sul collo fragile, le gambe bollenti che paiono fondersi con l’asfalto, i seni che inturgiditi dolgono, il ventre che si gonfia di indigerita amarezza.

Pesanti sono i pensieri che non le danno tregua, l’irresolutezza che la tormenta, il dolore che non viene metabolizzato, il desiderio che non trova sfogo, l’irritazione sofferente che deve essere camuffata.

Pesante, grave e greve, è il suono delle parole non dette, quelle inghiottite per non ferire e non essere ulteriormente ferita e ancor più appesantita da rimorso e accuse, quelle che teme di (u)dire davvero.

Pesanti i gesti da compiere, le parti da interpretare, i ruoli assegnati, i discorsi da fare, quelli da ascoltare, quelli da cui si lascia attraversare indifferente (?), fingendo una cerebrale ipoacusia, tentando un’invocata atarassia.

Pesante è l’anima che un tempo (quale? l’ha scordato, ma deve, perdio, *deve* esserci stato) fu leggera, e cerca la mano che sa attraversarla con una carezza – leggera – non data.

  • OTTOVOLANTE
 “(Non è nulla: sono qui: ci sono sempre).”
Arthur Rimbaud, Vertigine

Ha sempre detestato l’ottovolante. Salire e scendere e poi risalire e poi ridiscendere, velocissimamente, la fa stare male. Il cuore in gola non fa per lei: le aritmie cardiache ed emotive la disturbano, la logorano, la consumano. L’altezza l’ atterrisce di inettitudine, il precipitare la illude di volo. Colori filanti di micro scatti impressionano la retina e l’immaginazione.

La doccia scozzese, poi, è un supplizio: la pressione si abbassa, il sangue si ritira, il cervello svapora e i pensieri si liquefano e scivolano via col sudore, mentre brividi di calore la sfiniscono. La gelida pelle pallida, incendiata di chiazze paonazze, annuncia lo svenimento prossimo. Pulviscoli di luce danzano nel buio degli occhi aperti e ciechi.

Eppure, anche immota, continua a girare sull’ottovolante; anche inerte, sente ghiaccio e fuoco attizzare e spegnere nervi ed epidermide.

Per questo, la vita la uccide.

  • ALLA DERIVA
Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l’alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.
Eugenio Montale, Le occasioni

Le parole tracimano, penetrano, scavano, si insinuano, avvelenano.

La forza devastante di una verità rivelata e pericolosa, scagliata e dirompente nel suo sussurro, senza il velo della speranza, senza la carezza delle ciglia che proteggono lo sguardo, senza la tenerezza di una mano che ripara.

“Alla deriva”. La vita della sua vita. E lei in un altrove, non ricorda quando assegnato, ma stabilito proprio perché assegnato. Un’altra non scelta che incatena. Una constatazione fredda, sfuggita in uno scricchiolio, come il definitivo incrinarsi di un ghiacciolo, acuminato, trasparente puntale che precipita – improvviso, inaspettato – nell’orecchio, che duole, duole e si lacera, si lacera e si allarga, portando con sé brandelli di sogni e di sorrisi e di partenze e di arrivi e di futuro.

“Alla deriva”. La vita della sua vita. E quella vita porta con sé i resti della sua: galleggiano ciechi, mentre il gelo li intride, macera e consuma.

“Nella tua deriva, la mia fine”. Le parole che non è riuscita a dire, inghiottite dal silenzio di un reciproco – insopportabile – dolore. Il naufragio di una felicità aspettata lascia relitti di disperazione.

Alla deriva.

  • CUBISMO
Dipingere non è un’operazione estetica.
E’ una forma di magia intesa a compiere un’opera di mediazione
tra questo mondo estraneo ed ostile e noi.
Pablo Picasso

Osserva sé e l’altro come in un quadro cubista: l’immagine di un unicum è spezzata, frammentata in un’analisi senza soluzione, riassemblata in una visuale astratta, che stride come l’urlo del gesso che scrive. Lo sfondo del tempo futuro e i piani prospettici del tempo trascorso si compenetrano, creando un vuoto ingannevole. Ecco che la descritta consapevolezza della reciprocità si annulla negli spicchi dello specchio in pezzi, il reclamato superamento verso un’unica entità delle singole parti si scopre superato dallo scomporsi delle singolarità, ora sì uniche, ma perché non conosciute davvero. Ecco la ricomposizione della figura rivelata da tutti i punti di osservazione, anche quelli impossibili, della dimensione che guarda dall’interno. Sì, ora sì l’immagine è chiara: le forme si reggono vicendevolmente in un precario e squilibrato equilibrio, trovano senso e scopo nell’essersi utili, necessarie palafitte di sostegno in un esercizio di sopportazione del dolore/supportazione nel dolore; elaborazione di felicità come fuga dal dolore/illusione razionale come cessazione del dolore. E poi tutta l’ambiguità di quel vuoto che resta con il precipitare delle dimensioni: l’immensa solitudine di ciascuno.

Questa scopre essere la percezione dell’amore.

  • VUOTO/PIENO
Io tento una vita:
ognuno si scalza e vacilla
in ricerca.
S.Quasimodo, Curva minore

Vuoto.

Più piene sono le sue giornate, più ne avverte il vuoto. Il vortice del suo tempo concesso a chi non ne fa parte si arresta nell’attesa di chi corre contro il proprio tempo, perché lei ne faccia parte.

Pieno.

La mente è vuota. Poche immagini, rare parole rimbalzano nel pieno di vacui pensieri, senza valore, senza importanza. La ragione non vuole concedersi il doloroso piacere della memoria. Il cuore sì: è pieno di sguardi, di frasi non dette e sussurrate, di momenti che sono eternità.

Vuoto.

Dove è la porta che conduce alla fuga, dove il tunnel che precipita nell’inferno, dove la scala verso l’infinito, dove il nero buco che sconfigge il tempo?

Pieno.

Quando la conta sarà terminata, quando le braccia saranno colme, quando il giorno vincerà la notte, quando la notte avrà il calore del giorno?

Vuoto, pieno. Adesso, poi. Ragione, cuore. Dove, quando.

Il senso perduto si trova nell’assenza.

  • IKARIA
…E caddi come corpo morto cade.
Dante, Inf. c.V

Non farcela. Il puzzle si disfa e lo sfacelo è la nuova non forma. Cercare conforto nelle parole ma accorgersi che le lettere non si associano in un senso compiuto. Confusione cerebrale. Voragini aperte: lasciarsi inghiottire, provare ad aggrapparsi. Ma a cosa? (Cosa, rosa, casa, chiesa, accesa, tesa, fusa, illusa, cosa, cosa, cosa?) Immagina immagini. Prevale il nero. (Nero. Summa minima. Massimo nulla. Culla, ninna, nanna. Nulla. Nebbia, fumo, cenere. Spento, buio, notte). Connessioni sconnesse, alternanza e incoerenza, abisso e giù, giù, giù. Errare nello spazio e nelle decisioni, non decidere, anzi, recidere, uccidere, accidia vincente finalmente, finale scontato, scollato da iniziale partenza, perduta – intravista – perduta

perduta

perduta.

Cadere precipitare e ancora cadere precipitare infinito cadere precipitare.

Pochi gesti – disarticolazioni – convulsi, elettrici, poi disanimati.

Anima, vento, aria.

Vuoto.

Poi il nulla.

Nulla. Culla. Ninna. Nanna. Nulla.

  • IL GIUDIZIO UNIVERSALE
 “Il Giudizio in genere è la facoltà di pensare il particolare come contenuto dell’universale”
   Immanuel Kant, La Critica del Giudizio

Il Giudizio Universale non accadrà.

Perché è già accaduto.

E’ accaduto ad ogni sguardo che l’abbia anche solo sfiorata, a ogni impercettibile sussurro appena intuito ancor prima che intercettato, a ogni retro-pensiero immaginato e visto nella contrazione di una fronte, in un abbassarsi di palpebre, in un incrociarsi furtivo di occhiate, in un angolo di bocca beffardamente rialzato.

E’ stata universalmente giudicata con sentenze definitive ancorché non pronunciate, condannata senza appello dalla disapprovazione di sguardi freddi e sprezzanti, reclusa da pregiudizi senza uscita, isolata da muri di ostilità evidente, sepolta senza pietà da risate neppure troppo bene nascoste. Il Giudizio è stato Unanime oltre che Universale: questa donna è invisibile. Meglio: inguardabile, inappetibile, inconcludente, inetta, inane, insignificante, inadeguata, INUTILE (manca imbecille, ma purtroppo si scrive con la M).

A volte pensa di essere malata. No, non solo delle mille malattie che da sempre la tormentano fisicamente. Malata psicologicamente. Malata al punto di pensare che debba essere sottoposta inevitabilmente a un crudele – e senza speranza di assoluzione – Giudizio Universale. Un Giudizio Universale che la condanni ad un Inferno di disapprovazione derisoria.

Ma il Giudizio Universale non accadrà.

Perché è già accaduto.

In ogni istante.

  • TINTURA DI ODIO
Guardate com’è sempre efficiente, come si mantiene in forma nel nostro secolo l’odio.
Wislawa Szymborska, L’odio

Il piccolo odio quotidiano riempie silenziosamente le sue giornate e la sua vita. Sono sempre di più le persone che non sopporta.

La voglia di arrivare a un centimetro dal loro viso e sibilare tutta la sua insofferenza diventa sempre più forte e opprimente. Di più: avrebbe bisogno di urlare il suo odio con forza liberatoria e risolutiva. Si diverte a costruire mentalmente gli insulti più feroci (che poi sarebbe solo il rivelare la verità della loro miseria umana) aspettando perennemente l’occasione per sputarglieli in viso e ferirli, finalmente. Talora addirittura immagina di venire alle mani, ficcare le unghie nei loro occhi vuoti, nella carne putrida e malsana che avvolge la loro nullità, percuoterli con la violenza che sa di avere dentro di sé, che a volte, nell’infanzia, ha sentito salire e uscire e scagliarla contro i corpi di piccole carnefici, rimaste quasi inermi e instupidite dall’inattesa ribellione della solitamente mite e silenziosa vittima. Basterebbe iniziare dai fastidiosi moscerini per poi arrivare alle serpi pericolose (che poi, spesso, il moscerino è la maschera della serpe). E non sono, badate bene, le cose importanti a infastidirla: quelle ha imparato a trascinarle, quasi come esercizio di penitente sublimazione. Non sopporta, più in generale, la stupidità pretenziosa, l’ottusità autocelebrante, il recitare continuo di una parte, la ricerca di un pubblico plaudente, il crearsi una compagnia di giro reciprocamente compiacente, il lanciare sorridenti insinuazioni, l’accorrere pietoso e trionfante alle disgrazie altrui, lo sfruttare quando si ha bisogno e poi dimenticare un attimo dopo, il finto includere, l’evidente escludere, la parola sussurrata per essere intesa.

La maschera, signori, la maschera: siam sempre lì. Si dirà: anche lei ne indossa diverse e le accuse che saetta (mentalmente, povera pavida!) agli altri sono le stesse che qualche scaltro moscerino potrebbe rilanciarle. Può darsi. Le si conceda, tuttavia, l’alibi di una lunga sopportazione sorridente, l’acconciarsi da tempo al sorriso che svia, al silenzio che sfugge.

Se l’odio represso potesse bruciare, resterebbe solo cenere. La sua.

  • LE PAROLE DEL CORPO
La malattia è un avvertimento che ci è dato per ricordarci ciò che è essenziale.
Libro della saggezza tibetana

Il corpo parla, soprattutto se le labbra sono serrate.

Il dolore si distribuisce tra schiena, viscere, testa: si aggira incongruamente, incerto su quale ridicolo malessere sceglierà per avvelenarle la giornata.

Lei inghiotte pillole, gocce, amarezze. Si guarda bene dal consultare un dottore: trova ottime scuse per non farlo. Irragionevole come solo le persone razionali possono essere, rifiuta la diagnosi, la sentenza, la cura. Arriva a pensare che il dolore del suo corpo sia necessario per non ascoltarne altri. Oppure per apprezzare, rivivendolo nella memoria, il non dolore.

Ipocondriaca consapevole o malata inconsapevole?

Non ha importanza, il dolore è reale ed è con esso che continua a confrontarsi.

In fondo, è l’unico reciproco ascolto che le rimane.

La donna-scatolina

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