Le storie della bambina

  • UNA BAMBINA CATTIVA

La odiava e l’amava. Quella bambina così strana era la figlia di sua figlia eppure era un’estranea.
Sì, certo, il naso grosso, volgare, era indiscutibilmente lo stesso suo, ma quei capelli così neri, quegli occhi così scuri e quello sguardo così… così… irritante, ecco! non era certo “roba” sua. La bambina sapeva di non piacere a sua nonna. Spesso la rimproverava di non essere come era stata sua madre: dolce, remissiva, obbediente.
Potevano passare anche settimane senza che la vecchia le rivolgesse parola, offesa per uno sbuffo, o per un sopracciglio alzato, o per una canzone cantata a voce troppo alta, o per una risata fraintesa, o per una risposta giudicata non sufficientemente rispettosa.
Poi, magari, fiera di lei per i risultati scolastici, o ruvidamente impietosita per quel suo stare in disparte, le comprava un orologio d’oro, un anello prezioso, un vestitino tutto pizzi e falpalà, cose che la bambina non richiedeva e neppure gradiva, ma che importanza aveva? Avrebbe fatto qualsiasi cosa per un po’ di quiete, per una parola affettuosa. Anche un oggetto, quindi, in vece di una carezza, poteva essere un buon risultato.
Eppure, a sentire gli altri, quelle due si somigliavano molto più di quanto pensassero e, forse, desiderassero. La nonna era ostinata, diffidente, sagace, sempre pronta alla battuta tagliente . In casa era lei a comandare e l’unica che le teneva testa, con suo grande scorno, era proprio quella bambina testarda, impenetrabile, che sorprendeva a volte a fissarla con un sorriso beffardo, che le faceva prudere le mani. Quella bambina che ogni giorno pareva si destasse con l’unico scopo di ricordarle l’errore di sua figlia, lo scandalo e l’umiliazione subìta.
Talora la rabbia che la piccola le provocava (di proposito? la donna era convinta di sì), si trasformava in un’ira incontenibile, violenta, che veniva sfogata picchiando con furore quel viso cattivo, maligno. Il nonno provava a intervenire (“La testa no, le fai male, la rovini!”), ma a nulla valevano le sue parole, come sempre, del resto.
Una volta, la bambina aveva commesso qualcosa di imperdonabile (aveva sbuffato? disobbedito? non aveva abbassato lo sguardo?) e la nonna venne colta da uno di questi accessi di odio. Era una donna molto grassa, lenta nei movimenti, ma quella volta rivelò un’insospettata agilità nell’inseguire la diabolica bambina, che si sottraeva alle sue percosse rimpicciolendosi contro la libreria, accucciandosi per terra. La nonna le era addosso, forse voleva colpirla facendo cadere i libri; allora la bimba cercò rifugio sotto la scrivania, ma venne stanata anche da lì, strattonata e quindi chiusa in quella stanza, dove faceva i compiti. E difatti, finita la tempesta, si rimise seduta alla scrivania, provando ad aprire i libri. Ma quella volta no, non ci riuscì, continuava a tremare, a essere scossa da violenti singhiozzi. Sentiva la sua voce che provava a dire non so che parole di odio e di rivolta, ma neppure la riconosceva, tanto era stravolta da un pianto irrefrenabile. Sentì la voce della domestica, Marisa, con cui pure non aveva molta confidenza e che mai aveva mostrato tenerezza nei suoi confronti, osare riprendere la sua padrona: “Ma signora, è solo una bambina, non può trattarla così!”, ma quelle parole ebbero solo l’effetto di riaccendere l’ira della vecchia che sbottò: “Ah sì? E allora se non sta bene con noi, che se ne vada da suo padre!”.
Ecco, questa era la minaccia più feroce, la paura più folle, l’incubo più spaventoso che potesse toccare alla bambina.
Da sempre, quando la si voleva acquietare, le si prospettava il suo abbandono presso la casa paterna, presso l’uomo che proprio la nonna le aveva minuziosamente descritto nelle sue più rivoltanti miserie e piccinerie. L’uomo che, così le era sempre stato detto, l’aveva lasciata a loro per danaro. L’uomo che, una tantum, la veniva a prendere, le faceva conoscere persone che non le piacevano, la spaventavano, e che le raccontava clamorose fandonie, trattandola come una scimmietta stupida. L’uomo che aveva schifo di baciare negli ipocriti saluti di circostanza, quando la riportava al termine dell’imbarazzata ora domenicale (quando si ricordava di venire a prenderla, naturalmente). L’uomo che, anche nella sua assenza, era più presente di qualunque altro, perchè sempre al centro di liti furibonde, recriminazioni, accuse, pianti e grida.
La bambina, dalla stanza, sentì che il nonno era rientrato. Sentì anche la nonna che urlava “…una lezione…deve capire…non può continuare…”. Sentì ancora la voce maschile che tanto amava, la voce delle favole e delle consolazioni, borbottare qualcosa. Poi, un nonno che non conosceva, con gli occhi bassi, entrò nella stanza e con voce incolore le disse: “Véstiti”. “Dove andiamo? dove mi porti?”, singhiozzava lei. “Da tuo padre. Andiamo” le rispose lui.
La bambina si mise a gridare, e gridava e gridava e gridava “NO! NO! NO! NO!”, ma il nonno, questa volta implacabile, senza mai guardarla in viso, le fece indossare il cappottino, e la tirò verso la porta, col cane che guardava la scena esterrefatto, mentre la nonna sorrideva trionfante. Uscirono, la bambina si attaccava al corrimano delle scale, al pomolo del portone, agli angoli dei palazzi, mentre il nonno la trascinava per strada, come se non vedesse gli sguardi curiosi dei passanti, i commenti beffardi che invece arrivavano alla bambina (“Che bimba capricciosa!” “Perchè piange così?” “Guarda come si fa tirare!”). Le sembrava che il cuore dovesse scoppiarle, non riusciva neppure più a versare lacrime, la voce le si era arrocchita. Giunti all’imbocco della via dove abitava suo padre, la bambina cadde ginocchioni, stremata, avvolta in un buio che le faceva risuonare nelle orecchie i colpi impazziti del suo cuore. Fu allora che il nonno finalmente si fermò. “Vuoi che torniamo a casa?”. La bambina, stranita, non ebbe la forza di rispondere. Sentiva un sapore ferroso in bocca. In un rombo confuso le parve che il nonno continuasse: “…e devi promettere di essere buona, di non fare arrabbiare la nonna …perchè la nonna, sai, ti vuole bene, ma tu le devi obbedire, devi essere gentile con lei …lo sai che sei tutto quello che abbiamo …almeno tu, dacci un po’ di tranquillità …allora lo prometti? Di’, lo prometti?”. La bimba si riscosse. Non riusciva a mettere a fuoco il nonno. Provò a parlare, non riusciva neppure a far quello. Un dolore sordo sembrava aver sostituito ogni altra cosa in lei. Forse fece un cenno con la testa, forse il nonno finse di scorgere un assenso, un cedere alle richieste necessarie per il perdono. In quel buio, la bambina fece ritorno a casa e in seguito non riuscì mai a ricordare cosa avvenne dopo, se la mamma, tornata a casa, seppe mai cosa fosse accaduto; se la nonna ripensò mai a quella giornata, certamente per lei uguale a tante altre; se il nonno che tanto l’amava (e che spesso lei vedeva piangere) riuscì mai a perdonarsi.

  • LE VACANZE DELLA BAMBINA

La bambina ha uno sguardo rassegnato.
E’ tempo di vacanze. E’ tempo di follia.
Già normalmente casa sua è abitata non da persone ma da cartoni animati che cambiano continuamente i tratti grotteschi dei volti: le bocche si aprono spesso a dismisura e un sonoro troppo alto distorce le voci in grida senza senso; gli occhi si dilatano spaventosamente o si stringono minacciosi; le fronti si aggrottano e mille rughe segnano i lineamenti in smorfie dolorose. Raramente le labbra si distendono in un sorriso, raramente le mani che gesticolano nervose si protendono carezzevoli, raramente le parole rancorose diventano favole che aiutano a dormire, a sognare. Quando succede è una festa. Quando succede, di solito, è perchè la bambina sta male.
Ora è estate. Bisogna mettersi in viaggio.
Nessuno ne ha voglia. Ma si deve andare in vacanza, tutte le famiglie lo fanno. Se si finge di esserlo occorre partire. Sono tutti nervosi, esasperati, tesi, scontenti. La meta è sempre la stessa: una pensione familiare con pretese da hotel, in una località termale per pensionati con pretese mondane.
Vanno da anni lì: ormai li conoscono, non fanno tante domande, le conversazioni sono rassicuranti, il cibo è genuino e senza tante storie.
Le giornate sono sempre uguali: lunga passeggiata fino alle terme, sorsate amare alle fonti con i boccali di vetro spesso (anche la bambina ne ha uno, piccino e fragile, con un pinocchietto bugiardo come lei, che è sempre altrove), la mezz’ora di libertà (della bambina – lasciata ad ascoltare l’orchestra dello stabilimento termale che si esibisce nel repertorio delle operette – e degli sfinteri degli adulti), abbondante colazione (lotta con la nonna per avere l’ultima brioche: vince sempre la nonna), passeggiata davanti alle vetrine (acquisti quotidiani di cianfrusaglie costosissime ed inutili), aperitivo, pranzo, eterno riposino pomeridiano (riempito di giornalini e librini consumati), passeggiata fino al parco (“non correre, non sudare, non sporcarti, non parlare con chi non conosci, non raccontare niente di te, stai vicina a noi, stai seduta sulla panchina, stai ferma”), seconda missione giornaliera nei negozi, secondo aperitivo, quotidiana fuga davanti ai fotografi del corso (solo una foto a stagione: i visi invecchiano, la bimba cresce, l’infelicità è stazionaria), cena, dopocena sotto il pergolato dell’albergo, chiacchiere poco impegnative con gli altri anziani ospiti (argomento principe: la guerra), e poi a nanna, in attesa di ripetere l’indomani gli stessi gesti, le identiche parole.
“Si parta, dunque, ma ci si sbrighi”, pensa la bambina, che finge di essere un portaombrelli, un cane di ceramica, la cuccia del cane vero che, come lei, si mette in un angolo ed insieme osservano e ascoltano gli umani adulti che recitano l’usato copione.
“Hai preso tutto? Prendi la valigia grande! Il gas! Hai chiuso il gas? Le chiavi! Hai preso le chiavi? Anche quelle di riserva? Porco mondo! Rispondi quando ti parlo! Non fare quella faccia! Mi prendi per stupida? Credi che sia scemo? Chiudi le tapparelle! Hai tirato giù le tapparelle? Le porte delle camere! Hai chiuso tutte le porte? Hai preso gli ori? Hai nascosto gli argenti? Dove hai nascosto gli argenti? Dimmelo, maledizione, che ti dimentichi tutto! (alla bambina: Possibile che sei dappertutto? Possibile che non ti si trovi mai? Possibile che devi sempre fare pipì? Possibile che ti devi portare tutti quei librini? Possibile che mangi sempre?) Allora! Siamo pronti? Il taxi è arrivato? Quando arriva il taxi? Non avrai dimenticato di prenotare il taxi! Lo sai che non posso salire sul treno! Lo sai che il pullman mi fa patire! Ti dico che il taxi sono giorni che l’ho prenotato! E allora dove diavolo è il taxi? Perchè non arriva il taxi? OOOOOOOOOH! Ecco il taxi!”
A volte va peggio. Come l’altr’anno, quando c’era stata una di quelle spaventose litigate in cui venivano pronunciate parole incomprensibili, sibilati nomi sconosciuti, rinfacciati episodi e frasi che avevano l’effetto di scatenare gesti larghi e drammatici (rivede ancora suo nonno, in ginocchio, battere i pugni sul divano piangendo), grida (“sì, vi odio, come voi odiate me”) e lacrime. Lei era eccitata ed atterrita ad un tempo, curiosa di sapere di più, di capire il motivo di tanto rancore, di tanta sofferenza, e però sconvolta dalla violenza di quei sentimenti dilanianti, di quegli adulti che sembravano vivere di quell’odio che, spesso represso, ogni tanto esplodeva incontenibile.
L’altr’anno sembrava dovesse saltare la partenza. Poi qualcuno si era accorto che la bambina tremava e piangeva con lunghi singhiozzi che la scuotevano, così erano partiti lo stesso, “per lei, così non ci pensa”.
“Dunque partiamo” , si tranquillizza la bambina. L’autista del taxi li conosce: è sempre lui che li accompagna e poi li va a riprendere.
“Buongiorno, mi aiuta a prendere le valige, per cortesia? Ecco quella di lato, questa va sopra, non schiacci questa che è delicata. Dai su entate, cosa aspettate? (la bambina: “Posso stare davanti?”) Tu stai dietro. Va davanti la nonna (la bambina “Non potrei per una volta stare davanti?”) NO! Mettiti dietro e dormi.”
Si esce piuttosto in fretta dalla città e si imbocca l’autostrada.
Alla bambina piace l’autostrada, piace guardare oltre i guardrail e sognare, ma..
“La bambina ha preso la pillola contro il mal d’auto? Lo chiedi a me? Dovevi occupartene tu! Devo pensare a tutto sempre io? Toccava a te dargliela? A me? A te! Io? Tu! No, tu! No, tu!”
La bambina intanto ha già vomitato nel collo dell’autista e ora respira nel fazzoletto imbibito di acqua di colonia della nonna.
“Beh? Va meglio? Lo sai che devi avvertire quando ti senti male! E’ già il secondo anno che sporchi la macchina e il signor Carlo. Chiedi scusa. Come mai non parli? Stai ancora male? Carlo accosti, per favore. Ecco fatto, ripartiamo pure. Adesso però non metterti a canticchiare come al solito. Dormi un po’, che ti fa bene!”.
Al che la bambina si rattrappisce nell’angolo estremo della vettura e finge di dormire. In realtà, anche se un po’ intorpidita, guarda attentamente le strade e i campi, le case e la gente, gli animali e gli alberi e tutto quello che attraversa veloce il suo sguardo e si sedimenta per sempre nella sua mente. Gioca a tenere a mente immagini e scene intraviste: un ragazzo che gioca con un cane, un cartellone pubblicitario con una gialla pastasciutta fumante, cavalli fermi sui prati, cipressi scossi dal vento, un automobilista appiedato, bimbi che, come lei, sul ciglio della strada mostrano il loro malessere.
La bambina immagina di scappare dalla lunga macchina scura e di arrampicarsi su quei monti verdi che corrono ai lati dell’autostrada. Sa, con incrollabile certezza, che lassù sarebbe felice, lontana dalle urla, dalle lacrime, dalle vecchie signore che incontrerà all’albergo e che, di nascosto dai suoi, le faranno quelle domande proibite a cui le è stato detto di non rispondere mai, o di mentire.
Così la bambina, simula il sonno che la porta via e sogna foreste vergini, ruscelli freschissimi, una casa sull’albero, un cane-scimmia che parli con lei, mentre il taxi, inesorabile, la sta portando verso quella vacanza, che vacanza non è.

  • GIOCAVA

Preparò con cura la scena.
Dispose la seggiolina a dondolo di fronte alla stufa di ghisa in miniatura. Appoggiò un casseruolino di rame sui cerchi, immaginati roventi, per cuocere un’ invisibile e squisita pietanza. Ogni tanto apriva lo sportello della stufa per regolare la fiamma, rovistando con un lungo lapis altre matite colorate che interpretavano il ruolo di ceppi infuocati: non fosse mai che il desinare bruciasse!
Era un agosto torrido.
Le vacanze fuori città erano già state frettolosamente consumate il mese precedente e ora la noia accompagnava giornate eterne. Qualche volta la mamma la portava al mare. Che gioia, allora! Il prepararsi al mattino presto, il salire sulla corriera, arrivare allo stabilimento, accettare raccomandazioni e divieti in cambio dell’abbraccio delle onde, del calore della sabbia, della musica del juke-box, delle risate delle altre persone che sembravano sempre allegre, il rito del panino e del gelato, la ricerca di pietre preziose tra i sassi della spiaggia, aprivano un varco di meraviglia ed eccezionalità nella consueta solitudine. Poi, però, bisognava tornare e il ritorno era così più breve dell’andata! In ginocchio sui sedili dell’ultima fila della corriera, sfidava la nausea per poter vedere ancora il mare che, crudelmente luccicante, si allontanava da lei. La sera, cercava di manovrare i sogni per poter allungare ancora un poco quella libertà. A volte riusciva, ed allora era felicità pura, che dilatava quella rubata durante il giorno.
Quelle giornate erano rare.
Di solito la mattina passava tra i compiti delle vacanze e l’accompagnare la nonna a fare la spesa. Il pomeriggio lo trascorreva invece sul balcone, dove il nonno aveva costruito dei panchetti su cui regnavano spinose piante grasse, che circondavano il suo “salotto”. La mamma, quell’estate, le aveva regalato una seggiolina a dondolo di vimini, e la bambina amava dondolarvisi con forza, convinta che, un giorno o l’altro, la sedia si sarebbe levata in volo, portandola via. Dalla porta-finestra aperta poteva sentire la radio della sala e, in mancanza di questa, accendeva un transistor che troppo spesso perdeva la sintonia. Cantava a voce spiegata, la bambina. Cantava sempre, conosceva tutte le canzoni in voga in quegli anni e anche quelle di decenni addietro, imparate dalla voce della nonna o da vecchi 78 giri. Cantava e parlava da sola, inventandosi personaggi o raffigurandosene di veri, spesso celebrità o protagonisti di libri o film che aveva amato. Si impegnava in dialoghi elaborati, provava battute spiritose, rideva di gusto a quelle – silenziose – che le venivano rivolte. Ascoltava compiaciuta i complimenti che le venivano offerti dai suoi affabili e invisibili interlocutori, diversissimi tra loro ma accomunati dall’amore incondizionato che nutrivano per lei.
Quel pomeriggio il caldo era insopportabile.
Eppure, nella sua fantasia, quella stufetta, che era appartenuta a sua mamma bambina, stava andando a tutta fiamma per preparare la cena all’ospite atteso.
Lo aveva visto per la prima volta la settimana precedente.
La bambina stava cantando a pieni polmoni, convinta di avere davanti un pubblico adorante che reclamava continui bis, quando il suo sguardo cadde verso il marciapiedi di fronte al balcone. Un uomo la stava osservando. Tacque immediatamente, sentendosi avvampare come sempre le capitava quando, davvero, sentiva l’attenzione altrui su di sé. Si sedette sulla seggiolina a dondolo e finse di concentrarsi nella lettura di un libro. In realtà, continuava a sbirciare il tizio in basso. Poteva a sua volta osservarlo bene: sotto il suo balcone c’era solo un mezzanino, quindi era piuttosto vicina alla strada, tanto che riusciva persino a sentire le conversazioni più ad alta voce in cui si intrattenevano i conoscenti che si incontravano, o le esclamazioni scherzose dei fortunati ragazzi dell’oratorio, quando uscivano accaldati dal campetto di pallone. Poteva anche distinguere con precisione l’abbigliamento dei passanti e le espressioni dei loro visi, che le raccontavano storie persino più interessanti di quelle dei romanzi o del cinema. Così si permise il lusso di guardare l’uomo a lungo, in pieno agio: il bianco era il suo colore. Calzoni e giacca candidi, di lino, stazzonati elegantemente (“elegante” fu l’immediato aggettivo con cui lei ne definì l’essenza), una camicia immacolata, aperta sul collo, celato a sua volta da un foulard (di seta, immaginò la bambina) bianchissimo come la pelle, che le parve appena increspata di rughe sottili (forse anche queste solo immaginate), e come i capelli, fini e un po’ lunghi, che nascondevano appena un’incipiente stempiatura. Curiosamente, sandali francescani, indossati senza calze, lasciavano alla vista piedi magri che alla bimba parvero indifesi. Unica nota scura, gli occhiali da sole a proteggere iridi che lei ipotizzò sbiadite e timide.
Il tempo pareva scorrere con estenuante lentezza.
Lui era ancora giù all’angolo quando la nonna la richiamò in casa per la cena. L’invito, solitamente accolto con entusiasmo dalla bambina golosa, stavolta le spiacque e di malavoglia rientrò nell’appartamento.
Il pomeriggio seguente, quando lei uscì sul balcone, l’uomo era già lì. “Mi sta aspettando!” si convinse la bambina, intimamente compiaciuta. Poi, la consapevolezza della propria insignificanza la spinse a dubitare di quella presuntuosa certezza. Cominciò a dondolarsi nervosamente sulla sediolina, poi afferrò matita e album da disegno e prese a scarabocchiare distrattamente. Cercava di non pensare all’uomo elegante, ma, tant’è, non riusciva ad impedirsi di controllare cosa facesse. Certo che era proprio strano: si spostava impercettibilmente sul marciapiedi, ora intento ad osservare la vetrina del droghiere, ora quella del panettiere; giungeva fino al negozio del ciabattino, poi, con passi lenti e strascicati, si riportava all’angolo, dall’attraversamento, dove meglio aveva la visuale del terrazzo dove era la bambina. Il pomeriggio trascorse vanamente, con lei chiusa in un inconsueto silenzio, che non mancò di colpire la nonna, la quale addirittura si affacciò un momento dalla saletta per vedere se tutto andava bene.
Il giorno dopo lui non c’era.
Una fitta acuta di delusione attraversò la bambina: “Certo, non ho cantato” si disse, “magari voleva sentire le canzoni”. Così si risolse che, nel caso l’uomo elegante fosse riapparso, lo avrebbe intrattenuto con il suo sterminato repertorio.
Riapparve l’indomani.
La bimba avvertì un tuffo al cuore, vedendolo. Tuttavia volle fare una prova, per assicurarsi che lui fosse davvero venuto per lei: spostò tutto il suo armamentario dalla parte opposta del balcone (che era stretto, ma molto lungo: prendeva più di metà facciata del palazzo). Se lui avesse voluto vederla avrebbe dovuto spostare il suo punto di osservazione. Cosa che l’uomo, sempre muovendosi lentamente e con noncuranza, fece. “E’ qui per me, è qui per me!” esultò la bambina, sentendo crescere dentro di lei un senso di gratitudine e felicità, dolce e rassicurante come la zuppa di latte e Nipiol che le dava la mamma prima di dormire. Decise di esibirsi per lui e solo per lui. Attaccò a cantare, instancabile, tutte le canzoni che conosceva, alternando le più recenti a quelle d’antan. Cantò a voce così spiegata che, a un certo punto, la nonna venne a sgridarla e la trascinò in casa, incurante delle sue proteste e delle implorazioni. “Chissà se mi aspetterà” si chiese affranta la bambina. Quando, un’ora dopo, le fu concesso di tornar fuori, lui non c’era più.
La mattina seguente chiese ed ottenne di non uscire a fare la spesa. Disse che si sentiva stanca, che non stava bene. In realtà voleva preparare un nuovo gioco: le avevano comprato una pompetta per gonfiare certi coloratissimi palloncini che erano inclusi nella confezione. Ancora disperata per la reclusione del giorno precedente, aveva meditato una delle sue tante fughe statiche (a volte decideva di naufragare, usando come zattera la cassapanca dell’ingresso; altre volte piazzava un materassino gonfiabile in fondo al corridoio e si trovava in una soffitta di Parigi a disegnare cani vagabondi o in un rifugio durante la guerra ad ascoltare il fischio delle bombe che cadevano; altre ancora si nascondeva nello spazio tra un alto “settegiorni” di mogano e il muro della camera da letto, convinta di aver trovato la porta per un mondo parallelo, dove lei “recitava” soltanto la parte di G., conscia di essere tutt’altra persona, forse un’aliena, forse un fantasma). Adesso aveva deciso che sarebbe davvero volata via.
Cominciò a gonfiare furiosamente tutti i palloncini, fino a occupare completamente il suo “salotto” sul balcone; quindi, rubato dal cassetto di cucina uno dei tanti gomitoli di spago che il nonno, maniacalmente, arrotolava e conservava, iniziò a legare i palloncini ai braccioli della sediolina, allo schienale, alla base dondolante di essa. “E’la mia mongolfiera”, si ripeteva soddisfatta. “Volerò via”, si convinceva entusiasta. Finito il lavoro, rientrò in casa per posare i resti del gomitolino e per prepararsi un sacchetto di provviste (“Mi venisse fame durante il viaggio..”, si disse previdente). Al pomeriggio, l’avventura poteva cominciare. Si mise in postazione e attaccò a darsi una serie di energiche spinte per dondolare sempre più forte. Aveva una corta gonnellina a pieghe che si sollevava ad ogni spinta e l’aria che le saliva su tra le gambette le dava davvero l’ebbrezza del volo sognato.
Fu allora che lo vide.
Questa volta non fingeva neppure di essere interessato ai detersivi in esposizione dal droghiere. Aveva il capo decisamente volto all’insù e la guardava, attraverso le lenti scure. Stupidamente, lei ne fu felice, prima ancora che sorpresa, e manifestò l’eccitazione provata dandosi una spinta ancora più forte delle altre. Si sfracellò sulla ringhiera. Si mise a piangere indecorosamente, mentre sentiva un grosso bernoccolo formarsi sulla fronte. Richiamati dal pianto della bambina, i nonni uscirono sul terrazzo e, come sempre, mentre il nonno si disperava prefigurandosi la morte della nipotina per materia cerebrale dispersa, la nonna si assicurò della sua permanenza in vita tirandole un ceffone per averla fatta spaventare.
Il pomeriggio si concluse in cucina, con, appoggiata sul bernoccolo, una borsa del ghiaccio meno fredda della morsa che sentiva intorno al cuore.
Il giorno dopo l’uomo elegante non venne che per pochi minuti. Poi un signore parve dirigersi verso di lui, con l’aria stupita di chi non si immagina di trovare una persona in un certo posto, e l’uomo girò con imprevista velocità sui suoi tacchi e si allontanò in direzione opposta.
La bambina intanto fantasticava su di lui. Chi era mai quell’individuo tutto bianco che improvvisamente era capitato nella sua vita? Forse un angelo che voleva difenderla da tutta l’immensa sofferenza che sentiva? Forse il fantasma di qualcuno che aveva abitato in quella casa prima di lei e che ora controllava i nuovi proprietari? E se invece fosse stato.. era un’ipotesi così straordinaria che quasi aveva timore a formularla.. e se invece fosse stato il suo vero padre (uno nuovo, non quel mostro cui minacciavano di consegnarla quando era cattiva) che, finalmente, aveva deciso di rivelarsi e di reclamarla ad un nuovo ed insperato affetto? Doveva convincerlo a manifestarsi, a venirla a prendere, a regalarle una vita normale, serena!
Ecco perchè quel pomeriggio stava cucinando per lui.
E lui venne. E lei, perso ogni ritegno, appoggiò i piedini sul bordo superiore della ringhiera, nel tentativo di dondolarsi meglio, di farsi meglio vedere. Riuscì così a spingersi con forza ma lentamente, e rimase così, appesa a quel bordo, incerta se parlare o aspettare un suo cenno, il suo consenso. E mentre lei si dondolava, patetica scimmietta senza pudore, lui la osservava, immobile, impietrito, senza parole da dire, senza gesti da fare. La fissò a lungo, intensamente, le mani in tasca, come stranito. Quindi si riscosse, abbassò lo sguardo e si allontanò.
La bambina scese da quel suo trespolo, provando improvvisamente un senso di vergogna, di disillusione e di rabbia.
Per qualche giorno preferì giocare in casa, nonostante il caldo. Dalla finestra della sua stanza lo vide ancora, un paio di volte, attendere pazientemente ma vanamente la sua comparsa. Poi, forse stancatosi a sua volta di quel gioco, l’uomo elegante non tornò più.
Fu quell’estate l’ultima volta che la bambina credette di potere volare.

  • NON USCIVA MAI

Non usciva mai.
Il nonno, quando era più in gamba e meno umiliato dal tempo, la portava ai giardini. Lui restava dalle panchine, a chiacchierare con mamme e nonne, compiaciute del suo sguardo galante e divertite dalla sua conversazione brillante, mentre la nipotina “doveva” giocare con altre bambine alle “signore”, impiastricciando pentolini di latta di minestrone fangoso, in cui galleggiavano desolati fili d’erba. Poi, quando proprio non ne poteva più, andava a fare a botte coi maschietti, smaniando per i loro sacchetti di biglie di vetro e per le lucide pistole nere coi meravigliosi, puzzolentissimi fulminanti. Il nonno, alle fiere, gliele comprava, le biglie e le pistole, persino una fionda arancione, una volta, con cui l’ingrata bambina aveva centrato il maestoso fiore rosso della pianta grassa preferita di sua nonna, mettendo nei guai il pover’uomo. Ma poi finiva sempre che i fulminanti sparivano, l’elastico della fionda veniva tagliato e le stesse luminose biglie con l’arcobaleno racchiuso, finivano per essere riposte nello scaffale più in alto.
Poi il nonno cominciò a essere sempre più confuso, proprio nel periodo in cui lei si ammalò. In un certo senso finì anche la bambina, come le biglie, nello scaffale più in alto e nessuno se ne accorse.
Passava i pomeriggi in quella sala sghemba, dallo strano perimetro irregolare. Sua nonna la chiamava pomposamente “La Sala Da Pranzo” e si sentivano tutte le maiuscole quando pronunciava quelle parole.
Era una grande stanza d’angolo di un palazzo del dopoguerra dalla facciata desolatamente essenziale (più per povertà contingente che per gusto minimalista), che aveva la particolarità di avere una lunga ed alta finestra che ricopriva le due pareti contigue, formando un curioso angolo di luce che si apriva da un lato su una via piena di vita e di negozi, dall’altro su una grande piazza con una enorme aiuola circolare, dentro la quale svettavano tre povere altissime palme striminzite.
La nonna aveva affollato quella sala di mobili di ogni tipo, in un’accozzaglia di stili ed epoche degna del delirio di un arredatore folle: bureau, trumeau, vetrinetta, tavolo e sedie in barocchetto piemontese, con intarsi di legni diversi che componevano cesti di fiori e figure di dame e cavalieri del ‘700; due orripilanti poltrone squadrate gialle, anni ’50; una sedia a dondolo old America; un tavolinetto di ebano e cristallo art nouveau; una stretta poltrona di ruvida stoffa blu con un avveniristico meccanismo che la trasformava in chaise longue; un radio-grammofono di mogano degli anni ’40, su cui troneggiava un ingombrante televisore anni ’60. Sui mobili e nella vetrinetta sfavillava l’argenteria di famiglia.
Il pavimento era coperto da un parquet dai toni caldi dei tasselli di legno rosso, e, sotto il tavolo, un grande tappeto dai disegni orientali aveva accolto spesso il sonno di un grosso cane nero e ricciuto dal carattere riservato.
La bambina avvertiva tutto il cattivo gusto di quell’arredamento, ma lo aveva reso funzionale al suo eremitaggio: sul tavolo ovale per otto persone (quando mai otto persone si sarebbero sedute a quel tavolo?) si perdevano libri di scuola, quaderni, album da disegno, chine e pennini; dietro i cuscini quadrati delle poltrone gialle, nascondeva invece i libri che rubava dalla libreria del nonno per leggerseli in santa pace; il grammofono andava a tutto volume e suonava lucidi e rigati dischi, pesantissimi, a 78 giri, long playing a 33 giri e nuovissimi dischetti a 45 giri. Tutto era meraviglioso: da Gershwin a Ellington, da Debussy a Beethoven, da Beniamino Gigli a Gorni Kramer, da Renato Carosone a Little Tony.
Esattamente all’angolo della grande finestra, era posizionata la sedia a dondolo. Girandola ora a destra ora a sinistra, la bambina, in ginocchio su di essa, teneva sotto controllo ora la via dei negozi, ora la piazza.
Conosceva tutti, anche se nessuno conosceva lei.
Il droghiere del negozio d’angolo, testa bianca leonina, profilo grifagno e colorito rubizzo, trascorreva troppo tempo nel bar di fronte.
Suo fratello, piccolino, completamente calvo, sguardo timido e penetrante, esile e nervoso, aveva gesti meccanici di un automa, sempre di corsa dal magazzino alla drogheria.
Il panettiere, bianco di carnagione e di farina, alzava la sferragliante serranda alle sei per preparare il pane e quella fragrante focaccia che il nonno le faceva trovare per colazione.
Sua moglie, palpebre gonfie, grigia e stanca fin da giovane, ovale appesantito, lievitata come le biovette e il pan di casa, serviva in negozio.
La domestica del secondo piano della casa dirimpetto, vecchia, ma coi capelli di un nero fittizio e cotonato, spiava, come lei, la vita nella strada e nelle finestre altrui.
La ragazza bionda, aria intelligente e decisa, accompagnata fino al portone da un coetaneo moro, viso aperto e sincero, aveva finalmente imparato a congedarsi da lui con un bacio.
Il vicino alto e magro, brizzolato, sempre in blazer, balzava fierissimo sulla sua 850 sport azzurra e sgommava in quella strada di casalinghe affannate.
Il barbiere meridionale, occhi liquidi e voce tenorile, lasciava sempre aperta la porta del negozio e rimaneva al suo interno a suonare la chitarra, tra un cliente e l’altro.
I cani della moglie del ciabattino, marroni come il cuoio, simpatici e scodinzolanti come lei, entravano e uscivano dal negozio del padrone per infilarsi nel magazzino del droghiere, regolarmente cacciati con grandi urla che parevano più divertirli che spaventarli.
I piccioni, grassi e invadenti, nidificavano dal mezzanino del palazzo moderno.
Le rondini, il cui stridere annunciava inutili primavere, preferivano invece i balconi del vicino vecchio caseggiato.
La bimba conosceva ogni dettaglio, immaginava parole e conversazioni, pettegolezzi e miserie, sentimenti e risentimenti.
La via dei negozi si incrociava con un’altra strada, della quale la bambina non vedeva la fine, ma ne prevedeva il limite dei binari della ferrovia che – più avanti – l’attraversava. Proprio all’inizio di questa strada, c’era l’oratorio, col cinemino parrocchiale, dove un tempo il nonno la portava, nelle lunghe domeniche pomeriggio, a vedere Stanlio e Ollio o i cowboys, masticando lunghe stringhe di liquirizia. Ora non andava più al cinema, all’oratorio non l’avevano mai mandata, ma dalla sua finestra ne vedeva un’altra dei locali parrocchiali, ampia e rotonda, che anche a notte inoltrata, chissà perchè, rimaneva illuminata di una luce gialla un po’ fredda, come una grande luna piena.
Ecco, per la bambina quella finestra era la sua luna, il punto dove poter focalizzare dei sogni, se mai li avesse avuti, e non li aveva, perchè pensava che non sarebbe mai uscita da quella stanza e se anche fosse uscita non avrebbe saputo dove andare, certa com’era che nessuno la stesse aspettando. Ma quella luna immaginaria le teneva compagnia, sembrava indicarle un infinito in cui perdersi, una qualche promessa di futuro.
Più raramente la bambina girava la sedia a dondolo verso la piazza. Di interessante lì c’era soltanto un palazzo che aveva d’angolo, affacciata sulle infelici palme, una torretta dove, all’ultimo piano, una piccola finestra lasciava filtrare la luce di una lampada rossa. La bambina pensava che avrebbe voluto abitare in quella torretta ed era sicura che dietro quella finestra, c’era una stanza dove una bimba come lei leggeva alla luce di una lampada rossa.
Da quel lato, poi, c’era un’edicola – di cui riusciva a leggere, persino da quella sala, i titoli delle locandine esposte – e, accanto, una cabina telefonica.
Una notte, una delle tante in cui si era alzata per sfuggire ad incubi angosciosi e respirare meglio, si era affacciata a quella piazza e aveva visto una donna – indossava lunghi stivali di vernice nera – dentro la cabina, parlare concitatamente con qualcuno. Con chi parlava quella donna? Perchè quella conversazione non aveva mai termine? Perchè teneva la schiena voltata, rispetto alla finestra da dove la bambina la stava osservando, così da non mostrare l’espressione del volto? Solo le spalle che parevano singhiozzare, solo le mani nervose che si agitavano e a tratti battevano sul vetro della cabina svelavano che si stava consumando un dramma, lì dentro.
Poi la nonna si svegliò e venne a sgridarla, perchè era in piedi e prendeva freddo, lì, in pigiama, in ginocchio sulla sedia a dondolo a guardare chissà cosa dalla finestra.
Doveva coricarsi e dormire e fare la brava, che ci mancava ancora che le venisse la bronchite, con tutti i problemi che già c’erano, che poi avrebbe dovuto rimanere a letto e non sarebbe potuta uscire.
Uscire?
Non usciva mai.

  • TABACCHI E TABACCHINI

Nessuno fumava, in famiglia, però le visite al negozio della tabacchina erano frequenti e la bambina si era sempre chiesta perché. Perché la nonna conversasse così sottovoce con la signorina Gemma. Perché spesso le venissero offerte gommose caramelline al mentolo, ricoperte di una fitta granella di zucchero, che neppure le piacevano. Perché fosse invitata ad andarle a succhiare sulla soglia del negozio, anche se dentro non entravano che rari clienti. Perché la nonna avesse sempre quello sguardo sarcastico e duro, presagio di malumori di cui la bambina finiva per essere il capro espiatorio, quando – finiti i conciliaboli – si tornava a casa.
Ogni “perché” rimaneva insoddisfatto, allorquando la bambina osava rivolgerli alla nonna. Certamente preferiva il silenzio seccato alle bugie. Detestava essere presa in giro: avendone contezza, ne rimaneva offesa. Le storie come quelle che il nonno farfugliava (“Sono amiche da anni”, “Non c’è nessun mistero”, “Le piacciono le caramelle”, “C’è bisogno di nuovi mazzi di carte” e via inventando) venivano ascoltate con compassionevole impazienza, certa com’era che dietro vi fosse qualche terribile segreto che il nonno le celava per proteggerla.
A volte, invece di imporle la degustazione di quei piccoli coni di gusto alpino, che si incastravano inesorabilmente tra i dentini, alla bambina si permetteva di scegliere dall’espositore delle pastiglie per fumatori. Ma era una falsa alternativa: in realtà menta e mentolo – che non lenivano, ma irritavano – non lasciavano spazio ad altri gusti e l’alito fresco si pagava con stizziti colpetti di tosse.
Se le veniva concesso di soffermarsi presso il banco a contemplare ciò che non era una tentazione, o se la sua presenza sfuggiva per un attimo al controllo delle due bisbiglianti signore, la bambina osservava l’accurata disposizione della merce, collocata in un assetto le cui regole sfuggivano tuttavia al suo gusto estetico. Perché, ad esempio, non ordinare i pacchetti di sigarette in una tavolozza cromatica? Sarebbe bastato seguire le innumerevoli sfumature di colore che offrivano: dall’oro caldo all’algido argento, dal bianco elegante al passionale rosso, dall’arancio screziato al prezioso turchese. O disporli, invece, come in una quadreria, la parte frontale in bella mostra, con gitane danzanti e caravelle in partenza, cammelli nel deserto e stemmi imperiali, elmi alati e globi terracquei. Oppure, seguendo le dimensioni dei pacchetti e la loro consistenza: pacchetti smilzi e alti intervallati da altri panciuti e schiacciati, confezioni in cartoncino – più duro o più morbido – alternate alle raffinate scatolette di latta con disegni in rilevo o serigrafati.
Sul banco, invece, un’altra misteriosa delizia si mostrava agli occhi della bambina: le confezioni in metallo (argentato, dorato o brunito) del “tabacco da fiuto”. La passione per le scatoline attirava le piccole mani verso quel tesoro proibito, reso ancora più attraente dall’aver visto sia il nonno che la nonna spizzicare quella poltiglia secca, portarla con gesto fine e noncurante alle nari, per poi esplodere in robusti starnuti. Cosa causava quei boati? Cosa conteneva quella mistura? Ma, soprattutto, perché sembrava così piacevole e risolutivo provocarsi quella deflagrante reazione?
Altri tesori, poi, sfilavano istantanei sotto gli occhi della bambina: album dalle sobrie copertine che raccoglievano francobolli, i francobolli stessi, piccoli capolavori che ne mostravano altri (imparò a conoscere le figure michelangiolesche della Sistina sui quei minuscoli rettangoli dentellati), buste di ogni dimensione e colore, le prime biro che avrebbero ben presto sostituito le penne a cartucce con cui aveva imparato a scrivere. E le cartoline! Come veniva trasfigurata la sua insignificante cittadina in quelle immagini! Com’era più azzurro e sereno il cielo, più vicino ed invitante il mare, più vivaci le facciate dei palazzi, più rare le macchine, più sorridenti gli abitanti. Persino le tre palme striminzite e sofferenti di quell’arida oasi che avrebbe dovuto abbellire la piazza su cui si affacciava casa sua, sembravano svettare rigogliose in un prato smeraldino. Mah..
Tuttavia la vera attrattiva di quelle visite era proprio la curiosità sollecitata nella bambina dall’atteggiamento degli adulti nei suoi confronti.
Tre erano le persone che potevano trovarsi nel negozio: la signorina Gemma (l’unica di cui veniva pronunciato il nome: gli altri due rimasero per sempre anonimi alla piccola), suo fratello e la moglie di quest’ultimo.
La signorina Gemma era una donna robusta, i capelli di un grigio ferrigno, il viso severo e l’espressione malevola. Difficilmente sorrideva e, se lo faceva, la sua era più una smorfia sarcastica che un sorriso. Quando si appartava all’angolo estremo del bancone per discutere con la nonna, gli occhi già piccoli si infessuravano e spesso lo sguardo si posava sulla bambina, come per controllare che non udisse, oppure, come la bimba in seguito comprese, perché udisse proprio determinate parole che stava riferendo alla nonna.
Alla bambina capitava frequentemente di incontrare la signorina Gemma, o di passare davanti al suo negozio per andare a scuola. Se era con il nonno, come d’abitudine, la signorina rispondeva, sia pure freddamente, anche al suo buongiorno. Se era da sola, o il nonno era entrato per una commissione in qualche bottega vicina, ecco che, al suo saluto, la tabacchina rendeva lo sguardo vitreo e opponeva un fracassoso silenzio, che convinceva la bambina della propria invisibilità.
La cognata aveva, contrariamente alla sorella del marito, un timido sorriso sempre impresso sulle labbra, che mostrava un inquietante vuoto al posto di un incisivo, vuoto su cui l’attenzione della bambina era perennemente (e maleducatamente) calamitata. Quando, dopo qualche tempo, la mancanza venne finalmente colmata da una protesi d’oro scintillante, lo sbalorditivo cambiamento costrinse la bambina a imporsi di volgere gli occhi altrove, cosicché, in presenza della donna, si abituò a osservare con preoccupata fissità la punta delle scarpe.
L’anonima cognata (anonima nelle generalità, ma anche – incisivo mancante a parte – nei connotati: pareva che sulla carnagione e sulla disordinata chioma sale e pepe fosse passato un piumino di cipria grigia, una polvere sottile che ne avesse opacizzato anche lo sguardo e l’espressione) era succuba della signorina Gemma. Evitava di interloquire con l’imponente parente, tanto più con i clienti, che serviva tenendo gli occhi bassi, opponendo l’imbarazzato e mite sorriso ai bruschi modi della cognata, che spesso la rimproverava sgarbatamente. Non iniziava mai una conversazione, rispondeva solo se interrogata, ed era in evidente stato di soggezione anche nei confronti della nonna della bambina, da cui era considerata poco più che un elemento di arredamento della tabaccheria.
Suo marito veniva più raramente in negozio, preferendo lasciare la responsabilità della gestione alla sorella e la fatica del servizio alla moglie. Snello e slanciato quanto la sorella era massiccia e tarchiata, portava i capelli di un grigio chiaro (forse era stato biondo, da ragazzo) tagliati a spazzola, cosa che gli conferiva un alcunché di militaresco. Indossava, anche d’estate, severi gilet chiusi da una miriade di minuscoli bottoni e impreziositi da taschini, da cui spuntavano lembi di fazzoletto, sigari e catene d’orologio.
Lo si trovava di rado dietro il bancone. Più facile vederlo, silente sentinella, sull’uscio del negozio, mentre aspirava con lentezza il fumo di certi eleganti e aromatici cigarilli. Dei suoi silenzi la bambina notava l’alterigia, del suo sguardo lo sfuggire, del suo isolarsi il disprezzo. La nonna ripeteva di frequente che, del prossimo, la piccola rilevava prima i difetti che i pregi, ma la sua osservazione non era di rimprovero, bensì di soddisfazione: la nipotina aveva imparato bene la lezione impartitale. In quest’uomo la bimba avvertiva una malvagità noncurante, forse un odio appena velato dall’educazione: istintivamente lo temeva e lo evitava, spostandosi sul marciapiedi a giocare o soffermandosi dall’espositore delle cartoline.
Talora, voltandosi improvvisamente, attraversata da un brivido inconsapevole, sorprendeva gli occhi chiari del tabaccaio trafiggerla, fessure gelide come quelli della sorella. Ma era un istante: subito erano volti altrove, come a sfuggire la repulsione per qualcosa di putrido.
Capitava che la bambina, dalle orecchie sempre tese, cogliesse alcune parole delle conversazioni che trascorrevano misteriose tra la nonna e la signorina Gemma.
Comprese così che l’oggetto di quelle chiacchiere, che tanto gettavano di malumore la nonna, era suo padre. “..ho saputo poi che..”, “..che vergogna per sua figlia..”, “..avete fatto bene a..”, “..bastava guardarlo..”, “..senza dignità..”, “..quanto gli avete dovuto dare?..”, “..e sosteneva di essere dei baroni di..”, “..quel mentecatto..”, “..come tutti quelli di ‘chillo paese’..”, “..sarebbe stato meglio se..”, “..almeno se ne fosse accorta prima di..” e qui gli sguardi si volgevano verso la bambina e le voci si abbassavano ulteriormente.
La bambina si imporporava e capiva, e fingeva perciò di non capire, attendendo di poter tornare a casa, di mettersi di nuovo a leggere, di partire verso il mondo parallelo che l’attendeva caldo e confortante.
Una volta, mentre attendeva il nonno che era entrato dall’elettricista proprio accanto al tabacchino, si era fermata a osservare le grandi vetrine che mostravano fili, congegni, attrezzature, interruttori, walkie-talkie (il suo grande sogno!). Stava ammirando quel cervellotico disordine impolverato, quando l’orribile sensazione di essere osservata la fece voltare di scatto. Il fratello della signorina Gemma era lì. Fumava, naturalmente. Stavolta la guardava apertamente, senza sfuggire al suo sguardo. Rossa in viso, la bambina, non sapendo come comportarsi, lo salutò. Egli si abbassò con studiata lentezza, portò il suo viso all’altezza di quello della bimba, le sbuffò il fumo negli occhi scuri, sui ricci neri. Poi, rialzandosi, pronunciò con un mezzo sorriso un’unica parola, ma ben scandita: “Terrona”.
La risposta a tutti i suoi “perché”.

  • SCALE E FUGHE

Era un corridoio lunghissimo.
No, dire corridoio non rende l’idea: era un salone di cui non si intravvedeva la fine, un percorso a ostacoli invisibili, una selva spoglia, un labirinto lineare, un gorgo, un antro, un pozzo. Un incubo.
Eppure era solo un largo, spazioso, immenso, eterno corridoio lunghissimo, che la bambina ogni giorno percorreva, abbandonata a sé e alle sue misere armi di sopravvivenza.
Per arrivare a quel corridoio lunghissimo, doveva ogni giorno affrontare una ben più lunga strada, la manina umida di angoscia abbrancata a quella rugosa del nonno, che nell’altra reggeva – in vece della nipotina – la cartella rettangolare, gonfia di quaderni, astucci e sussidiari.
A volte la bambina chiacchierava, domandava, inquisiva, pontificava – persino! – conscia com’era di essere la piccola dea di quell’uomo anziano che pendeva dalle sue labbra, che si addormentava sfinito dal continuo leggerle fiabe nelle interminabili giornate di febbri infantili, che la accompagnava ai giardinetti e la osservava giocare in disparte, che le confidava ricordi belli e brutti di lavoro e vita, di treni disegnati e guerre subìte, di amici perduti e animali trovati, di neonati morti e spose poco amate, che le insegnava a fischiare, modulando il fiato con arte sopraffina, le canzonette della sua gioventù.
Altre volte, più spesso, il viso aggrondato, il labbro inferiore sporgente, si lasciava invece trascinare dal nonno in silenzio, già immaginando le beffarde domande (“Non viene mai tuo padre a prenderti?” “Non fai mai una festa di compleanno?” “Perché non inviti mai nessuno a casa tua?”) e le cantilenanti derisioni delle compagne (“Sei brutta, sei grassa, non sai correre, non sai fare le capriole, hai vestiti ridicoli, alla mia festa non vieni”, prevedibili variazioni del consueto: “Non ti vogliamo”), nonché le perfide osservazioni delle suore (“Naturalmente, dove c’è scritto ‘Firma del padre o di che ne fa le veci’, farai firmare dalla mamma” “Alle prove della Comunione non occorre tu faccia venire i tuoi”) alle quali ormai aveva imparato a non rispondere, a far finta di nulla, a mostrare quel sembiante di indifferenza che pareva irritare ancor più le piccole o grandi persecutrici.
In quel silenzio contava i passi, osservava i piccioni, i fili d’erba tra le lastre del selciato, il pescatore incongruamente ignudo in mezzo a una fontana, alle prese con un pescespada dalla cui bocca zampillava l’acqua, le vetrine celate dalle saracinesche ancora abbassate, i rari passanti accigliati come lei.
Arrivava poi la salita, la prima che occorreva affrontare per arrampicarsi verso quel castello che dominava la cittadina e che ospitava la scuola delle suore dove era iscritta.
Quante volte il nonno le aveva raccontato che qui, proprio in quella strada che si inerpicava verso la parte alta di S., loro, i nonni giovani e una mamma bambina, in un tempo più felice – nonostante la guerra – avevano abitato in una casa che sempre le era stata descritta come lo scoglio da cui, povere ostriche, erano state strappate dalla marea della vita.
Ora, continuando a contare i passi (“mille e uno, mille e due, mille e tre..”), cercava con lo sguardo i suoi punti di riferimento che le confermavano il percorso: i due piccoli leoni di pietra che sorvegliavano un cortiletto, un cagnolino riccio dall’aspetto di una pecorella che portava a spasso una padrona tozza e senza collo, la carcassa di macchina abbandonata in cima alla salita, dietro cui le era capitato di nascondersi in un’urgenza di pipì da paura.
Quindi, dopo una curva, arrivava la parte più faticosa: la grande scalinata che portava al castello. Era ripida, larga, divisa in tre lunghe rampe, una che tagliava la collina in diagonale e le altre due che si arrampicavano in verticale. Quando c’era la mamma ad accompagnarla (capitava due o tre volte all’anno) era una festa: aveva più fiato del nonno e poteva canticchiare con lei una filastrocca che l’aiutava a salire quei gradini così faticosi. Ma al nonno, meschino, ci voleva tutta l’aria dei suoi poveri polmoni solo per sostenere quello sforzo immane; così alla bambina, nella muta fatica, si gonfiava il cervello di pensieri orribili, leniti solo dal piacere che le procurava comunque la prospettiva di imparare qualcosa di nuovo.
E poi, lasciato il nonno nell’atrio della scuola, ecco ancora una rampa: uno scalone di marmo che portava a un primo corridoio, illuminato dalla luce del giorno filtrata dai vetri colorati dei finestroni del castello. Altri tre gradini e un bivio: a destra, l’ennesima scala, questa dal meraviglioso corrimano di ferro battuto che si avvolgeva su se stessa in un’ampia curva e che portava i bimbi più grandi alle classi superiori; a sinistra, il corridoio dell’orrore.
Il nonno solitamente la faceva giungere a scuola ben prima del suono della campanella. La bambina si ritrovava così in perfetta solitudine ad attraversare quell’ultimo tratto che la separava dal più rassicurante corridoietto che si apriva sul fondo, a sinistra, rivestito di rasserenanti piastrelline verdi su cui si affacciavano le prime tre classi elementari.
Ai lati del maestoso corridoio correvano invece delle altissime scaffalature di legno scuro, dai ripiani velati da sottili griglie dalle maglie rade, dietro cui luccicavano gli occhi di vetro di centinaia di animali impagliati, che parevano tutti fissarla con la disperata violenza di chi è congelato nell’eternità della propria morte, senza l’oblio pietoso della smemoratezza del tempo, prigionieri dell’istante che ne aveva fermato la fuga e la salvezza. La bambina sentiva il suono dei propri tacchetti rimbombare in quel silenzio di non vita e le pareva che a dare il ritmo ai suoi passi fosse il battito martellante del suo cuore. Immaginava che quelle bestiole fossero stati bambini rimasti intrappolati in un incantesimo perverso delle suore, da una preghiera malvagia a un dio impietoso che respingeva, invece di accogliere. Bimbi come lei senza speranza, schiacciati da altrui volontà, gli occhi sbarrati eternamente a domandare perché, perché, perché, senza neppure più attendere una qualsiasi risposta.
Una mattina, si era appena affacciata sulla soglia di quel cerchio infernale, sentì – come se a farla partire fosse stato il primo timido passo del suo piedino – una vibrazione fortissima, un grappolo di suoni che precipitavano dall’alto, scanditi in un rimbombo che – le parve – oltre lei aveva fatto tremare anche l’aquila dalle ali spalancate che svettava sul ripiano più alto. E, dopo quelle, altre note che si inseguivano in un ritmo sempre più concitato, come il suo cuore impazzito, e che rimbalzavano da una parete all’altra e l’avvolgevano e la stregavano, in una confusione di timore e di bellezza. E ancora il canto e l’urlo, il soffio e il turbine di uno strumento nuovo, molto diverso dalla sonorità dolce del pianoforte che aveva a casa, “la voce di DIO!” si ritrovò a dirsi, soggiogata da quella musica che parlava a lei, proprio a lei, raccontandole della propria paura e disperazione, delle scale reali e metaforiche da salire e da scendere, del fuggire e del correre della mente tra angoli oscuri e sogni di luce solo intravista.
Ma mentre la bimba rimaneva immobile in quel corridoio, rapita, la cartella caduta, la bocca spalancata (chissà se in un primo presagio di inadeguatezza), ecco che la musica si spense improvvisamente in un gracchiare insensato: “Prova, prova.. Uno, due, tre.. Prova, prova..” .
Sì, la prova di quel modernissimo impianto di altoparlanti, che da quel momento in poi permise alla Molto Reverenda Madre Superiore di raggiungere in ogni angolo le sue pecorelle più o meno smarrite, era riuscita.
Era riuscita ad aprire un varco, a mostrare alla bambina una finalmente raggiunta via di fuga.
Una fuga di Bach.

  • ILLUSIONISMI

La giornata era stata lunga e intensa.
Erano partite al mattino presto, in un’aurora che sarebbe restata a lungo negli occhi della bambina: dal finestrino di quel lungo treno ancora antico, con gli scompartimenti appannati di fumo e sbadigli non trattenuti, i sedili di prima classe ricoperti di velluto verde, polveroso e pungente, aveva visto il sole – appena sorto – glassare di rosa lucente le nuvole che accompagnavano il diradarsi della notte, e lo aveva sentito accendere di vita scoperta il suo visetto paffuto ed assonnato.
Si era deciso che occorreva rendere visita a certi amici di Torino, conosciuti tanti anni prima dai nonni e da una mamma ragazza – immaginata dalla bimba timida e introversa come lei – ad Uscio, in quella famosa Colonia Arnaldi dove si andava – a sentir la nonna – per patir la fame, conoscere bella gente e depurarsi, in attesa di tornare alle proprie mense, imbandite di ogni alleato del colesterolo e del diabete.
Di questi famosi amici torinesi, la bimba aveva da sempre sentito favoleggiare “…e il signor G., che uomo distinto, che modi garbati!” “…e la galleria di dipinti del signor G., che meraviglia, che artisti prestigiosi!” “…e la signorina Maria, che brava ragazza, che educazione raffinata!” “…e che disgrazia la morte di quella povera signora! Che lutto! Che dolore! E che riserbo nel sostenerlo!”. Poi, qualche mese prima, ecco che si erano inopinatamente materializzati sulla soglia della loro casa e allora la bambina aveva potuto finalmente dare un volto a quei fantasmi.
Il signor G. aveva realmente un’aura di distinzione ottocentesca che aveva incantato la bambina. Lo figurava uscito da uno di quegli sceneggiati che in quegli anni la televisione trasmetteva: alto, ossuto e segaligno, radi capelli candidi che lasciavano sgombra una fronte spaziosa e bombata, certamente attraversata – la bambina ne era sicura – da pensieri profondi, pelle sottile e diafana, vene azzurrine sulle tempie ed importanti favoriti. Lo sguardo era chiaro e in apparenza smemorato, forse perso in altezze iperuraniche, ma velato di una bontà cortese e compassionevole. Vestiva di grigio scuro, e sul reverse della giacca elegante spiccava un bottone rivestito di stoffa nera, segno di un lutto avvertito ancora come recente.
Sua figlia Maria era esattamente come la bambina immaginava le signorine zitelle, sfuggite – per volere o per forza – al giogo di un destino matrimoniale per rimanere ad accudire genitori egoisticamente amorevoli. Aveva grandi e bovini occhi scuri, dallo sguardo languido e curioso, i capelli neri – tra cui spiccavano argentei fili di precoce invecchiamento – tagliati alla moda di almeno vent’anni prima, trattenuti di lato da una semplice forcina. Indossava un cappottino color tortora, sobrio al limite del dimesso, come dimessa e modesta era l’espressione del viso, appena incipriato di polvere rosata dal profumo dolciastro, che colpì l’olfatto della bimba costretta, suo schifato malgrado, ad accogliere la richiesta di un bacio sulla guancia.
Entrambi pronunciavano le frasi di circostanza e di saluto con un accento dalle larghe vocali che la bambina non aveva mai sentito in precedenza e che le suonò dolce e benevolo, in confronto a quello ligure, dalle venature sarcastiche, che era abituata ad ascoltare.
Erano stati fatti accomodare nella Sala Da Pranzo (quella che la nonna pronunciava con tanta orgogliosa enfasi da far sentire nettamente le maiuscole che le attribuiva) ed era stato loro offerto un Caffè (anche questo maiuscolo), che era stato servito nella panciuta caffettiera d’argento e versato nelle tazzine turchine, trapuntate di stelle d’oro come il rivestimento interno, disposte con studiata simmetria sul vassoio d’argento più grande, intorno a un trionfo di amaretti e pasticcini.
La conversazione (come tutte quelle che, in seguito, la bambina udì con quegli ospiti) aveva seguito uno schema ben preciso: si era partiti dai convenevoli d’obbligo – “Vi trovo bene!” “Che bella cera!” “Non siete per nulla cambiati!” “Una casa accogliente!” “Che arredamento di gusto!” “Che bella bambina!” – con quella necessaria e rassicurante ipocrisia dettata dalla buona educazione. Poi si era scivolati ai giorni trascorsi alla Colonia Arnaldi – “Ah, che bei ricordi!” “Che settimane rilassanti!” “Come si soffriva la fame!” “E le tisane? Ricordate che sapore disgustoso?” “Che belle passeggiate!” “Che lunghe chiacchierate!” “Vi rammentate della famiglia R.?” “E di quei simpatici signori F., che ne è stato?” – rivissuti come un Eden irrimediabilmente perduto, spazzato via da tragedie successive che avevano impietosamente travolto le loro esistenze. Paradossalmente proprio su tali tragedie si sorvolava con fine non chalance, appena carezzata da eloquenti sospiri di rimpianto. Quindi ci si era rituffati nel presente, sugli aggiornamenti riguardanti parenti e relativa prole, su acquisti e investimenti, sulle rispettive attività, e la conversazione era così divenuta insostenibilmente noiosa per la bimba, che si era nascosta sotto il grande tavolo col cane, in mano una matita e un notes. D’un tratto, spuntò il viso pallido e sorridente del signor G. che si era inclinato di lato a 90 gradi per interloquire con la piccola: “Ti annoi?” domandò, con il tono cortese e deciso di chi già aveva compreso. La bambina, che mai avrebbe offeso una persona così squisita, protestò: “Oh no, affatto!” e sorrise, certa che il dialogo si sarebbe chiuso così. Invece l’uomo gentile continuò: “In realtà certe conversazioni sono davvero insulse” pronunciando quest’ultima parola quasi in un sussurro, accompagnato da una sorprendente strizzata d’occhio. “Fammi vedere cosa stai disegnando”, le chiese ancora. La bimba, timidamente, porse il taccuino, dove il cane, arrotolato tra i suoi ricci corti di barbone ben curato, si era trasferito dal tappeto alla carta a quadretti. “Davvero interessante” borbottò. Quindi, si tirò su, non senza qualche scricchiolio delle ossa. Fu il turno della bambina di sbucare da sotto il tavolo: “Vuol vedere degli altri disegni?” osò, meravigliando se stessa. “Volentieri” rispose il distinto signore. Si allontanarono dalla sala da pranzo (in minuscolo) tra i sorrisi condiscendenti degli altri adulti. Nello studio della mamma, dove teneva i suoi album impilati sul vecchio pianoforte, iniziò un serissimo dialogo tra l’anziano gallerista e la bambina sulle tecniche che questa usava per disegnare, del suo rifiuto di usare i colori, preferendo i chiaroscuri del carboncino e i tratti decisi della china, del circoscrivere il soggetto rappresentato senza inserire altri particolari, per isolarlo dall’ambiente. Dal disegno si passò alle parole che la bambina amava scrivere, abbozzi di poesie, ritratti di persone viste o immaginate, emozioni finalmente rivelate ma trattenute dal laccio di rime ingenue e pompose. Il signor G. era abile nel farla parlare, riflettere, seguirlo in ragionamenti sempre più complessi e profondi, in un godimento evidente per entrambi. Le parlò della sua galleria, degli artisti che esponevano da lui, di una ragazza, Gemma, che aveva seguito dai suoi primi passi all’affermazione. La interrogò sulla vita, sul valore dei giorni e degli istanti, le disse del doppio sguardo che un artista deve avere, tra l’oggettività del reale e la sua soggettiva apparenza.
Venne l’ora del congedo. I commiati furono cerimoniosi e carichi di promesse di rivedersi presto, e la bambina dolorosamente pensò che, come sempre, non vi sarebbe stata continuazione e si sarebbe ripresa la solita vita trascorsa in disparte, senza contatti – “come appestati”, si ripeteva – rassegnata e in fondo convinta che quello fosse il loro giusto destino. Invece, qualche mese dopo, complice una rinnovata corrispondenza tra la signorina Maria e la mamma, fu presa l’inattesa decisione: ci si sarebbe recati a Torino per contraccambiare la visita.
Il viaggio era stato lungo, ma l’eccitazione aveva impedito alla bambina di appisolarsi e persino di leggere. Non era mai stata a Torino e in quell’anticipo di primavera non le parve la città un po’ grigia e “squadrata” di cui aveva sentito parlare dal nonno, che era rimasto a casa con il cane. Anzi, i portici alti, le strade dagli incroci regolari come quelli di una scacchiera, le piazze grandi e ordinate, persino il traffico, che le parve discreto e ovattato come la voce di quel suo amico garbato, le davano un senso di familiarità ed accoglienza. Il taxi le portò rapidamente nella via centrale dove abitavano i G. La casa stava in un palazzo dalla fiorita grazia del primo novecento. Suonarono alla porta dell’appartamento e fu proprio la signorina Maria, con la stessa pettinatura e la stessa modesta semplicità, ad aprire. Il padre era rimasto qualche passo indietro, sorridente e pacato nel salutare le ospiti. Non era una casa vasta, o così parve alla bambina, ma forse tale impressione era dovuta alla quantità incredibile di ninnoli, cornici, fioriere, oggetti delle più varie dimensioni che ingombravano ogni centimetro di qualsiasi possibile superficie. Le pareti, poi, erano letteralmente rivestite di quadri, stampe, disegni che subito incantarono la bambina, che si mise ad osservarli con grande attenzione, mentre i grandi replicavano la conversazione di qualche mese prima, sorseggiando rosolio offerto in minuscoli bicchierini di cristallo, e degustando squisiti cioccolatini e speciali giandujotti di un famoso negozio cittadino. Dopo qualche minuto la raggiunse il signor G., che riprese a dialogare con lei come se non fossero trascorsi che pochi minuti dal loro precedente colloquio. Le mostrò, in particolare, i quadri di Gemma, illustrandole la tecnica del puntinismo, che la pittrice aveva adottato. Le spiegò con pazienza, ma rivolgendosi a lei come un’adulta, quanto importante fosse, in questa tecnica, la stesura del colore, che viene depositato a tratti o sotto forma di punto, utilizzando solo i colori primari.
“Vedi, – le disse sorridendo – tanti minuscoli punti sovrapposti formano il colore scelto, i contrasti così si fondono, dando l’impressione, per chi osserva l’immagine riprodotta, di sfumature e toni che in realtà sono la sovrapposizione dei colori primari”. “E’ un inganno, quindi”, dedusse la bambina. “In un certo senso sì – le rispose il gallerista – ciascun colore è influenzato dal suo vicino, e quindi i colori, non mescolati ma accostati, creano un simultaneo contrasto. La fusione dei colori, in questo modo, non avviene nel quadro ma nella retina dell’osservatore. Riesci a comprenderlo?” “Penso di sì – annuì la piccola – il pittore fa vedere ciò che non c’è sulla tela ma solo negli occhi di chi guarda”. Il signor G. allargò il suo sorriso e offrì un cioccolatino alla bambina, che lo gustò soddisfatta.
Giunse così il momento di salutarsi. La bambina era dispiaciuta di dover ripartire, ma il signor G. pronunciò un “Arrivederci!” così carico di promesse che ella ne fu riconfortata. Una vettura le riportò in stazione, dove già il loro treno era fermo sui binari.
Il viaggio di ritorno, senza più sogni e aspettative si preannunciava ben più monotono di quello d’andata. I giornalini che le erano stati acquistati furono ben presto letti e dimenticati. Il buio della sera velava impenetrabilmente il paesaggio che correva veloce, e le luci del percorso ferrato si allungavano in inquietanti scie luminescenti. La nonna aveva già cominciato a russare in modo insopportabile, tanto che un viaggiatore – con silenzioso ma esplicito disappunto – si era allontanato sbuffando dallo scompartimento. Il suo posto, tuttavia, non tardò ad essere nuovamente occupato da un signore che, fino a quel momento, era rimasto in piedi nel corridoio. Egli aveva con sé una valigetta nera, che preferì tenere in grembo, invece di adagiarla nel portabauli sopra i sedili. Pareva incurante dei rombi di tuono che la nonna emetteva pacifica, anzi, dimostrò subito il suo buon umore iniziando a chiacchierare con gli altri passeggeri. Era una persona di compagnia, amabile nel conversare, e abile nell’intrattenere con facezie e sapide battute il piccolo pubblico di stanchi viaggiatori. Quando la nonna si svegliò, destata dalle risate strappate dallo strambo signore ai suoi ascoltatori, con grande stupore della bambina, partecipò all’allegria generale, mostrando anch’ella di apprezzare la compagnia di quell’uomo. Questi, poi, si rivolse direttamente alla bambina: “E questa bimba che non dice nulla, vuole almeno rivelarmi il suo nome?”. Imporporandosi come sempre, lei glielo disse. “Che bel nome! E’ il nome di una principessa, lo sai?” “Quella si chiama anche Maria” borbottò la piccola scorbutica, che doveva le sue informazioni ai settimanali di pettegolezzi che la nonna non si faceva mancare. “Oh oh! Siamo di cattivo umore, eh?” non si lasciò smontare il tipo. “Ti propongo un gioco, ci stai?” “Vabbè…” accondiscese lei di malavoglia. Allora il signore aprì la misteriosa valigetta, che ancora riposava sulle sue ginocchia, e ne estrasse un mazzo di carte. Poi tirò fuori dal taschino una penna e un taccuino. Ne strappò un foglio e vi scrisse in fretta qualcosa. Poi lo ripiegò e lo diede alla bimba perché lo tenesse senza guardarlo. Quindi la invitò a scegliere una carta da quel mazzo e a mostrarla. Era un dieci di cuori. L’uomo chiese alla bambina di aprire il foglietto: vi era scritto “5 di cuori”. “Ha sbagliato”, rimarcò lei con una punta di divertita crudeltà. “Hai proprio ragione”, rispose lui con aria contrita e, rivolgendosi a uno dei passeggeri che stava fumando una sigaretta, chiese “Può gentilmente prestarmi il suo accendisigaro?”. Questi glielo porse, un poco perplesso. “Hai proprio ragione” ripeté, rivolto nuovamente alla bambina “Sai che facciamo? Diamo fuoco a questa carta cattiva che non mi obbedisce” e, così detto, avvicinò la fiamma alla carta che, magicamente, invece di incendiarsi, mutò il suo valore in un cinque di cuori. La bimba era rimasta a bocca aperta e così gli altri viaggiatori che scoppiarono in un vigoroso applauso. Prima che questo si affievolisse, l’uomo avvicinò la propria mano al viso della piccola scettica ammonendola: “Non bisogna rimanere con la bocca aperta: non sai mai cosa ci può finire dentro!” e così dicendo la bambina sentì per un attimo sulle proprie labbra il gusto freddo e metallico di una moneta, che lo strano tizio fece immediatamente sparire, per farla poi riapparire dietro l’orecchio della nonna. Ma le sorprese non erano ancora finite: dalla valigetta adesso apparvero due grandi anelli lucenti “Puoi dare un’ occhiatina per controllare che non siano rotti?” le chiese ancora. La bambina verificò la loro integrità e il signore, con molta serietà si rivolse agli altri passeggeri: “Siete d’accordo anche voi che gli anelli sono intatti, vero?” Tutti annuirono, mentre quello li faceva tintinnare, scontrandoli tra loro ripetutamente. “E allora come spiegate questo?” e nell’istante in cui pronunciò quelle parole ecco che gli anelli si incatenarono tra lo stupore generale. La bambina, per dispetto, rimase a bocca serrata, ma l’uomo questa volta fece scivolare delicatamente da dietro il suo collo un foulard rosso, con cui legò ancora i due cerchi che, nel frattempo, si erano nuovamente separati. “Sai fare un bel fiocco?”, le chiese sorridendo. Questa volta lei ricambiò il sorriso e disse: “Certo!” e lo annodò con cura. “Mmmh.. un fiocco coi fiocchi!” esclamò ridendo l’uomo che, alzatosi, dopo aver fatto passare gli anelli dietro la schiena, li mostrò separati ai suoi meravigliati spettatori, offrendo alla bambina il fiocco rosso ancora perfettamente annodato. “Bravo! Bravo! Ma come ha fatto?” si risolse finalmente a domandargli “Io l’ho seguita con attenzione, ma non ho capito come c’è riuscito”. “Vedi, – le rispose il signore fattosi serio – potrei risponderti che sono un mago ed è magia quella che ho usato. Ma queste sono illusioni: nulla di quanto hai visto è come appare”. “La magia è negli occhi di chi guarda!”, si illuminò la bimba, rammentando i quadri di Gemma illustrati dalle parole del signor G. “Lei fa sì che noi vediamo ciò che lei vuole che vediamo”. “E’ così, piccola filosofa. Nulla è come sembra “, rise lui. Ma intanto era arrivato alla sua fermata. Chiuse la valigetta, si infilò la giacca e ne trasse ancora una carta da gioco che porse alla bambina. Salutò in fretta e scese di corsa dal treno. Intanto la bimba aveva girato la carta. Era, in realtà, un biglietto da visita. Vi era scritto: “Antonio E., in arte MAGO TONY” e, più in basso, “idraulico”.

  • CARTE FALSE

La nonna era davvero un personaggio: venuta al mondo l’8 marzo (protofemminista già per nascita) del 1898 aveva nel sangue tutta l’irruenza, la sagacia, la testardaggine e la battuta tagliente di un mix esplosivo di corso (per parte di madre) e toscano (per parte di padre). Intelligente e pronta, pur di famiglia non agiata, la si fece studiare (al contrario dei fratelli maschi, cosa unica per l’epoca) fino a farle prendere il diploma di segretaria d’azienda (il suo studio doveva comunque essere finalizzato a un pronto impiego). Lavorò fino alla pensione presso una ditta (import-export) della piccola città di mare: assunta come segretaria, divenne in pochi anni l’indispensabile factotum e quindi il braccio destro del principale. In casa era lei a comandare (l’unica che le teneva testa, con suo grande scorno, era la bambina) e mantenne l’indiscusso ruolo di capofamiglia (dispotica, manesca, stundaia e lunatica) fino alla morte, avvenuta alla bella età di quasi 92 anni (morì il giorno precedente il suo compleanno).
Di se stessa aveva un’elevata opinione, del resto del mondo infima: riteneva di essere istintiva ma speculativa, intuitiva ma razionale, facendo della propria concretezza un vanto. Tuttavia, anche i più sagaci hanno delle debolezze. Quella della nonna era un’inguaribile superstizione ed un’incontrollata fiducia nelle cartomanti.
L’arzilla signora, ormai in pensione, poteva esercitare il suo ruolo di despota familiare a tempo pieno: sotto di sé venivano – nell’ordine – il marito, la figlia, la nipotina e il cane. In certi pomeriggi, rimanevano sole in casa la nonna e la bambina: magari il cane portava il nonno a prendere una boccata d’aria e la figlia era impegnata nel suo lavoro. Era proprio in quelle occasioni che lo spirito trasgressivo che albergava nell’austero donnone si palesava. Bastava una rapida telefonata: veniva immediatamente fissato un appuntamento e, fatto indossare velocemente il cappottino alla nipotina, si usciva, si attraversava la piazza, si entrava nel portone di un palazzo vicino, si saliva ansimando una rampa di scale dall’indimenticabile afrore di soffritto e minestra di cavoli e si era subito ricevute da una scialba signora in vestaglia da casa, indumento nobilitato da una serie considerevole di patacche alimentari. Nonna e nipotina (la cui presenza era sistematicamente ignorata dalle cospiratrici, ma i cui sensi memorizzavano ogni cosa) venivano fatte accomodare nel tinello stracolmo di ninnoli da fiera, abat-jour da “atmosfera” e santini strapazzati: una specie di raccolta di buone cose di pessimo gusto da grottesca Signorina Felicita dei baracconi. La cartomante apriva quindi un cassetto e tirava fuori un enorme mazzo di carte unte e bisunte dagli angoli spiegazzati, che cominciava a mescolare con enfasi. Quindi, memore per un istante della presenza della bambina, diceva, con voce sottile e stridula da cardellino: “Facciamo spezzare il mazzo all’innocente”. Ciò fatto, l’innocente poteva rientrare nell’oblio. Le frasi che la cartomante pronunciava erano – più o meno – sempre le stesse: “Qui c’è una donna che trama alle sue spalle!”, oppure: “Un uomo cattivo le vuole male”, o ancora: “C’è un problema di salute: occorre mangiare di meno!” (la nonna era obesa!). Dopo un’oretta, la seduta aveva termine: la nonna lasciava una busta su un piatto d’argento (?) annerito da una misericordiosa ossidazione, più serena per aver avuto la conferma che il mondo tramava alle sue spalle e rassegnata al fatto che le restassero più pochi anni di vita tra mille malanni (morì, come ho scritto, a 92 anni).
Un’estate si era, come in quegli anni spesso capitava, a Montecatini a “passare le acque”, quando la nonna decise di fare una gita con la nipotina. Meta prescelta: Pescia. Ora, quali retroscena vi fossero stati, quali accordi fossero stati presi, la bambina lo ignorava completamente; fatto sta che si ritrovò un pomeriggio con la sferica nonna dall’imperturbabile espressione, seduta accanto a lei su una scalcinata corrierina. Arrivate nella cittadina (di cui in seguito la bimba ricordò ben poco, perché non erano state certo le bellezze artistiche e paesaggistiche locali ad averle condotte fin lì), si incamminarono per una stradina dal grigio acciotolato, entrarono in un certo portone e furono subito ricevute da un donnino cerimonioso che le squadrò (“Ci sta soppesando”, pensava la bambina) con occhietti di un brillio metallico che parevano capocchie di spillo. Il caldo era insopportabile: la bambina notava disgustata strisce di carta moschicida nere di insetti, i rivoletti di sudore che segnavano i visi e un vago sentore di rancido che aleggiava sulle loro persone. La stanza dove furono ricevute era in penombra e lingue di luce filtravano polverose dalle persiane accostate.
La bambina da qualche tempo non stava bene, la sua schiena si piegava, si stortava, si accartocciava, come una pianta senza luce ed aria. La nonna si era convinta che, causa di questi ulteriori dispiaceri che gravavano sulla famiglia, dovesse essere un malocchio gettato sulla piccola da chissà quale nemico (“l’uomo cattivo che le voleva male”?), ovviamente per colpire loro. Così, senza avvisare nessuno, aveva deciso di portarla da una famosa “maga” per farle togliere la maledizione. Gettata così nella mischia, senza preavviso, non più solo muta testimone della superstizione nonnesca, la bambina si trovò disorientata e attonita protagonista di un rituale magico! Non sapeva se infuriarsi o mettersi a ridere. Sospese il giudizio fino a quando il donnino cominciò a imporre le mani attorno a lei, come a seguire un suo immaginario contorno, pronunciando litanie in un incomprensibile latinorum: era troppo! La bambina cominciò ad essere scossa da una risata irrefrenabile, che lasciò di stucco la maga ed offesa la nonna. Poi entrambe convennero trattarsi di un riso nervoso, dovuto al malocchio (un demone, magari) che usciva dalle piccole viscere e, terminato molto velocemente il rito, si fece un giro di carte per la nonna e ci si preparò al congedo. Prima di uscire il donnino, nel prendere l’immancabile busta dalle mani della nonna, le consegnò una specie di cuscinetto confezionato con del nastro rosso, al cui interno – disse – vi erano erbe straordinarie per far sì che il malocchio non tornasse più sulla bimba: avrebbe dovuto sempre tenerlo sul cuore a contatto di pelle, solo così sarebbe stata in salvo dal maleficio.
Il ritorno fu mesto: erano entrambe arrabbiate, la nonna con la bambina per la sua irrispettosa risata, la bambina con la nonna per averla umiliata facendola partecipe e attrice di quella ridicola farsa.
L’ignobile cuscinetto finì nella spazzatura dopo un prudente soggiorno in una scatolina di porcellana.
La bambina non guarì, anzi, peggiorò.
Ma il male più grande non era nella schiena.

  • MODISTERIA

C’era una strada che la bambina non percorreva volentieri.

Era la via dove abitava il padre, coi suoi fratelli e i genitori. Era il cammino per l’infelicità, per i misteri dolorosi, per gli incontri sgraditi, ributtanti, inquietanti. Era il passaggio temuto verso l’abbandono, la tragedia, il disastro. Lì c’era la casa di quegli estranei che una volta la settimana, o al mese, o all’anno (nel tempo, le visite si diradarono sempre più, con suo gran sollievo), doveva fingere di considerare parenti, fingere di vedere volentieri, fingere persino di amare (eppure, ne era certa, la finzione era reciproca: perché allora insistere e non ignorarsi?).

In seguito non riuscì mai a ricostruire un episodio singolo, una visita completa, una conversazione compiuta, bensì solo frammenti di immagini e parole e le sensazioni che aveva provato. Così nella sua mente si affastellavano piani e piani di scale, i cui gradini parevano ogni volta moltiplicarsi; corridoi lunghissimi che portavano a stanze piccole e poco luminose con letti monacali e mobili barocchi, crocifissi scuri e immagini di sante in estasi; un bagno angusto, con un lavandino che singhiozzava come lei, chiusasi dentro a sciacquarsi la bocca dopo i baci pretesi da tutti; uno studio grande, con foto sfuocate di carabinieri a cavallo, spade con nastri tricolori intrecciati, diplomi e attestati al valore; una sala, con un volto di Cristo appeso che la guardava ovunque lei si nascondesse, mandolini e chitarre che penzolavano alle pareti, e un organo elettrico su cui una mano scura, percorrendo veloce i tasti, mostrava alla bimba le note di “Munasterio ‘e Santa Chiara”. Apparivano e sparivano dalla sua memoria una vecchia piccola e magra (la nonna “baronessa”), dalla pelle bianchissima (una trama increspata di rughe e impastata di cipria) e i capelli nerissimi, acconciati in un’impalcatura improbabile, forse per conferire regalità e altezza alla figura curva; un vecchio grosso e imponente (il nonno “Barone e Colonnello!”), gonfio nel ventre e nello sguardo appesantito di borse e palpebre cascanti; un uomo (lo zio “dottore”) dal sorriso sbieco e gli occhi cattivi che le incutevano paura, con le mielose, minacciose allusioni alla loro prossima vita insieme, in Sicilia, lontano dalla mamma e i nonni (quelli “veri”); un altro (lo zio “ragazzo”) dallo sguardo timido e l’espressione buona, che aveva l’ingrato compito di prelevarla e riportarla a casa (quella “vera”) e che, per consolarla (unico che paresse accorgersi della sua disperazione), le comprava i fumetti di Tiramolla e Cucciolo. E poi lui, il padre: i lucidissimi capelli corvini dai ricci addomesticati di brillantina; l’odore di colonia amara e di tabacco che gli aleggiava intorno; l’eleganza innata dei modi e l’alterigia dell’occhiata severa; la finzione di ogni suo gesto, la bugia di ogni sua frase, l’ambiguità di ogni sua espressione; la facilità con cui suonava quegli strumenti musicali cui dava vita ma non anima. E gli incontri strani, sempre lungo quella via: un amico “di famiglia”, cui viene presentata, che allunga la mano per saggiare se inizi a crescerle il seno (ecco la prima volta di quel sapore di vomito in gola…); una donna dalla generosa scollatura, che porta il viso dalle guance rosa all’altezza di quello pallido della bambina, l’esamina bene ed esclama, divertita: “Ah, è questa tua figlia?”; un collega dello zio dottore, che la scruta con pena e non la saluta, scambiando solo salaci battute con il padre.

No, non era una strada che percorreva volentieri.

Eppure, in quella strada, nel marciapiedi di fronte all’ingresso della paura, c’era un negozio curioso, dove capitava che la nonna talora la conducesse: “GUGLIELMINA modisteria”, recitava l’insegna vecchia almeno quanto Guglielmina, l’ “artista dei cappellini” (come la dicitura della carta, con cui impacchettava le sue creazioni, sottolineava) che veniva loro incontro sbucando dalla porticina del laboratorio, trotterellando allegra in una nuvoletta di fili colorati e nastri appuntati da spilli sul suo corsetto grigio e sulle sovra-maniche da lavoro. Pareva sempre contenta, Guglielmina, e soddisfatta del suo essere davvero artista riconosciuta e à la page tra quelle provinciali così opache nelle loro sonnolenze post prandiali, eppure così desiderose che un niente di cipria sostituisse la polvere di consuetudini domestiche, e una vezzosa veletta facesse dimenticare i grembiali a quadrettoni.

La bambina lasciava volentieri la nonna e la modista alle loro chiacchiere, cui spesso si univano, in un borbottio complottante, anche le altre clienti dell’atelier: meglio osservare le vetrine interne che – dall’ingresso sulla strada – portavano alla vera e propria entrata nel negozio. I cristalli non erano mai – occorre riconoscerlo – puliti e splendenti come sarebbe stato necessario (forse la polvere che vi si depositava faceva più bohèmienne?), ma i gioielli che custodivano erano davvero incredibili, come i nomi con cui Guglielmina li battezzava: “Piuma al vento” (una paglietta verniciata bluette con una piuma d’aquila – in tinta – a lato svettante, fiera), “Farfalla impazzita” (un turbante in seta gialla con un enorme “gassa” sulla sommità), “La maschietta” (un feltro di foggia maschile dalla tesa larghissima), “Marinaretta in città” (un basco di angora bianca dal morbidissimo e panciuto pompon blu), “Selvaggia beltà” (una leggerissima costruzione di nastri in raso cangiante e piume di struzzo che – come i rami di un salice piangente – scendevano ad incorniciare il viso).

Ma ciò che più attirava l’attenzione morbosetta della bimba era ciò che sottostava alle siderali creazioni: le teste di legno o cartapesta che le indossavano. Parevano capi mozzati da un’implacabile esecuzione, reperti appena usciti dalla formaldeide di un qualche scienziato folle, la sommità mummificata di un corpo smarrito. Linee tracciate a disegnare un’elegante curva di disdegno, erano cornice per algidi occhi di vetro dalle ghiacciate iridi azzurrine. Nasi brevi dalle nari sottili parevano arricciarsi di orrore nell’essere così volgarmente osservati da vicino. Ciuffi di capelli sintetici e lucenti sfuggivano arricciati in graziosi boccoletti. A chi erano stati involati quei lineamenti così duri e lontani? A quale beltà degli anni ruggenti si era ispirata quell’ombra scura che scaldava lo sguardo vitreo? Per scoprirlo, la bambina conduceva mute conversazioni con quei volti impietriti, in cui talora riconosceva (o attribuiva) il soma di qualche suo concittadino (il massiccio testone, lo sguardo celato dalla falda del simil-Borsalino, non pareva forse quello del salumiere del corso? E la boccuccia a cuore di quel visino che spuntava dalla cloche di panno color ciclamino, non aveva la smorfietta della cassiera del bar della stazione?).

Nonostante i tempi stessero cambiando e le ragazzine dell’età della bambina schifassero i copricapi di quel genere, la nonna si ostinava ad acquistare per la nipotina costosi berrettini rétro, che la piccola ingrata badava poi bene a nascondere prima che le feroci compagne di scuola potessero avere altre occasioni per deriderla. Quindi, tanto era lieta di accompagnare la nonna per comprare i suoi eterni turbanti scuri, quanto sbuffava alla prospettiva di dover provare cappellini irrimediabilmente ridicoli sulla sua testolina. Quella volta però, prima di entrare nell’atelier, aveva notato in vetrina qualcosa che l’aveva entusiasmata: “Fantina”, si chiamava quel cappellino e il nome inequivocabilmente ne spiegava la forma di rigida cupoletta dalla breve visiera, con un lacciuolo da fermare sotto mento. “Fantina”! Ed ecco che la bambina già si vedeva in sella ad un destriero dal manto bruno e lucente, elegante e nobile come quello del Capitano d’Inzeo, che pareva danzare e volare tra gli ostacoli. Sì, sì: bisognava cominciare dal cappello, poi il cavallo sarebbe sicuramente arrivato. Con questo folle pensiero, provò docilmente, senza i consueti sbuffi, quello splendido copricapo: le stava così bene! Pareva persino meno paffuta del solito: bastava concentrarsi sulla testa, solo quella, così.. adulta e fiera!

Uscite dal negozio, la bambina, saltellando contenta tra i piedi della nonna, chiese alla vecchia signora: “Nonna, senti, ma di cosa è fatto il mio bel cappellino per essere così lucido e liscio e nero?”.”Cavallino” rispose la nonna.

La bambina non indossò mai quel cappello, e quella via si confermò nel suo intrinseco orrore.

  • IL GIORNO DEI MORTI

Alle sei del mattino, il primo rumore che entrava nei suoi sogni era quello di un macinino da caffè.
“grr grr grr grr”
Poi entravano un profumo e un borbottio: la caffettiera faceva il lavoro di ogni mattina, sei tazze per tutti, da gustare – riscaldate più tardi – con molto zucchero o da allungare col latte grasso della centrale.
Quindi arrivava il ronzio monotono e acuto di un rasoio elettrico.
“bzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz bzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz bzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz”
Era poi il turno di una porta d’ingresso che, delicatamente, si chiudeva, per poi riaprirsi e richiudersi, più o meno un quarto d’ora dopo.
Finalmente bussava alle nari della bambina il profumo che, solo, la poteva rapire da quel dormiveglia e convincerla ad alzarsi, scalciando le coperte e il loro tepore, e a fiondarsi in cucina: la focaccia, che il nonno era andato a comprare dalla panetteria di fronte al portone della casa in cui abitavano, era arrivata, calda e fragrante, in cucina ed attendeva solo lei per svelarsi fumante dalla carta oleata.
Di solito, ci si doveva spicciare: c’era da percorrere, per mano al nonno, una strada lunga che l’avrebbe portata alla scuola delle suore. Talvolta non c’era neppure il tempo di pucciare la sua bella striscia di focaccia nel caffellatte, ma doveva accontentarsi di sbocconcellarla (piano piano, per farla durare di più), lungo la strada.
Tuttavia vi erano occasioni felici in cui si potevano fare le cose con calma: niente tapparelle tirate su rumorosamente dalla mamma,
“sdeghedensdeghedensdegheden”
niente frase solita e detestata,
“Presto che è tardi: abbiamo i minuti contati!”
e neppure il divieto di fare una delle cose più belle al mondo: mangiare e leggere.
Vi erano occasioni, dicevo, in cui la bambina assaporava il piacere della lentezza, in cui la giornata partiva rilassata perché vi erano vacanze in corso, o altre in cui sapeva che avrebbe trascorso ore fuori. Fuori da casa e fuori dal consueto.
Il giorno dei morti era una di quelle occasioni.
Quel giorno, il nonno aspettava paziente che la bimba facesse la sua colazione, poi le infilava il cappottino, le aggiustava un berrettino in testa, facendo attenzione a non sciupare il fiocchetto bianco a pois blu con cui la nonna – di malagrazia – le fermava una banda laterale di capelli, controllava che le scarpine fossero bene allacciate, quindi i due complici, liberi finalmente, potevano chiudersi alle spalle la porta di casa.
La bambina e il nonno, chiacchierando con reciproco piacere, provando a fischiettare canzoni in voga o dei tempi andati, camminavano di buon passo verso il capolinea delle corriere, dai portici che costeggiavano la grande piazza dei giardini dove di solito la bambina giocava. Lì c’era anche la biglietteria e mentre il nonno acquistava i biglietti, la bimba saliva e scendeva dalla grande bilancia rossa parlante. Quando il nonno usciva, le dava sempre una monetina per avere il piacere di sentire la voce inumana (per il timbro metallico e per la fredda crudeltà con cui annunciava il peso della piccola cicciona) e di vedere uscire da una bassa fessura un bigliettino, che riportava le previsioni di un misterioso mago della fortuna.
Finalmente arrivava l’ora della partenza e la corriera poteva partire in direzione del camposanto, che si trovava a qualche chilometro dal centro. Come sempre accadeva, lungo il tragitto la bambina rimaneva silenziosa ed assorta, intenta a osservare cose e persone, case ed alberi, auto e mare.
Dopo una buona mezzora, la corriera imboccava una larga strada, costeggiata da cipressi argentei. Qui, a un certo punto, la corsa finiva e i passeggeri scendevano per percorrere a piedi l’ultimo tratto. Lungo la strada, molte erano le baracche in lamiera traboccanti fiori; capannelli di gente vi sostavano per acquistare crisantemi, margherite, garofani e altre piante che, chissà perché, alla bambina sembrano sempre impolverate, come quella strada, come le sue scarpine, come i pensieri che, come sempre, le affollavano il cervello e l’umore. Solitamente il nonno comprava mazzi di crisantemi d’un giallo pallido, che venivano avvolti rumorosamente nelle pagine di vecchi quotidiani. La bambina cercava di leggere, col capo di traverso, titoli di mesi prima, come se il tempo, nel luogo dove il tempo era finito, potesse magicamente tornare indietro.
Varcato l’ingresso monumentale, in prospettiva appariva lontana e vicina, all’incrocio di linee immaginarie, disegnate da cipressi e tombe marmoree, una chiesa che si ergeva opprimente, respingente, null’affatto consolatoria. Il nonno non la portò mai all’interno, preferendo indugiare tra i viali, nei campi, sotto i porticati, nelle cripte.
I campi alla bimba sembravano sterminati. Qui molte erano le croci, di marmo, di ferro o di legno. Sotto una di queste vi era la madre della nonna, la terribile bisnonna còrsa, morta pochi giorni dopo averla presa in braccio neonata. Il nonno toglieva i fiori quasi polverizzati dell’anno precedente e depositava i nuovi. Una preghiera veloce era sufficiente. In alcuni punti la terra era smossa per avere appena accolto il corpo di chissà chi. Era sul “chissà chi” che la bambina si interrogava, quella era la parte più eccitante e coinvolgente di quella giornata. Leggeva avidamente gli epitaffi, le frasi scritte in un italiano antico e colto, una lingua alta ed altra dalla vita che volevano rappresentare, cristallizzandola. Occorreva in poche righe raccontare il dolore dell’addio, di un amore strappato, ma anche il successo di un’attività, di una professione, lo sgomento di chi restava e l’imprevedibilità della morte, persino quando attesa.
Nei porticati, la bambina si perdeva a studiare le statue di marmo che rappresentavano persone di un’altra epoca, con vesti e acconciature di un passato per lei non familiare. Angeli che sorreggevano corpi abbandonati, madri straziate che cercavano di trattenere bimbi ghermiti da esseri spaventosi, fanciulle eteree dallo sguardo ormai vuoto, gentildonne e gentiluomini imbozzolati in pose ed abbigliamenti che dovevano suggerire la loro rispettabilità. Ma erano le tombe dei bambini morti che più di ogni altra cosa la attiravano. Trovava una dolorosa consolazione nel leggere quanto amore avevano saputo suscitare. Ne immaginava il motivo della morte. Si convinceva che fossero lì, accanto alle loro tombe, cercando di raccontare, a chi sapeva udirli, la loro storia.
E poi quei muraglioni altissimi, sezionati in piccoli rettangoli di marmo, che accoglievano i resti di chi non aveva tombe di famiglia, con foto color seppia impresse su ceramica, immagini sgranate che prolungavano effigi ormai dimenticate. Lì, per esempio, c’erano i genitori del nonno, non accanto, però. Il vecchio signore doveva spingere una scala altissima, di ferro, le cui ruote stridevano mentre faticosamente la spostava, da una parte all’altra della parete, per poi arrampicarsi cauto fino al loculo. Cambiava il piccolo lumino, metteva i fiori che aveva portato con sé nell’arrampicata, mormorava qualche parola e riscendeva un po’ traballante dalla nipotina, che aveva seguito con ansia quelle manovre.
Dopo scendevano in una cripta dove erano sepolti i bimbi morti appena nati. Minuscoli loculi, con il solo nome, custodivano la memoria di indicibili dolori. Lì c’erano i bimbi del nonno, un maschio vissuto solo poche ore e una femminuccia morta dopo alcuni giorni. Ogni anno, ogni volta come fosse la prima, il nonno raccontava alla nipotina come erano andate le cose: la nonna non riusciva a portare a termine le gravidanze e solo tre volte era riuscita a partorire. La terza era la mamma, nata settimina ma con una forza incredibile che l’aveva fatta sopravvivere, mentre i primi due bimbi non c’erano riusciti. Il nonno si soffermava soprattutto sulla bambina, Mirella: sembrava potesse farcela, lui era andato in pasticceria, aveva ordinato un rinfresco, voleva far festa allo scricciolo che DOVEVA vivere. La veste di trine, candida come la cuffietta, era pronta per il battesimo. La mattina della cerimonia la trovarono morta in culla. In quel frangente arrivarono i fornitori con i vassoi traboccanti di paste e delizie. Scoperta la tragedia accaduta, se ne andarono in silenzio, senza voler essere pagati. La neonata fu avvolta in quella bianca veste battesimale per la sepoltura e così fermata nel tempo con una fotografia. Ogni volta, concludendo il racconto, il nonno piangeva, come se rivivesse ogni istante di quella sofferenza e la bambina soffriva con lui e aveva l’impressione di essere stata lì, di aver aggiustato la cuffietta sulla testolina di Mirella, di averne spiato i respiri, di averle abbassato le palpebre su quei piccoli occhi orientali che ancora sembravano fissarla dalla foto.
Il vecchio e la bambina, tenendosi per mano, uscivano allora dal cimitero, in silenzio. Ripercorrevano a ritroso la strada impolverata, calpestando i ricordi e qualche fiore caduto. Salivano sulla corriera del ritorno e aspettavano che ripartisse.
La bimba, con il capo appoggiato sulla spalla del nonno, ne sentiva il leggero profumo.
Le sembra di sentirlo anche ora.

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