Tra le poesie di Gianluigi Gherzi che Simona ha letto stasera, al nostro Venerdì poetico, ho scelto quella in cui viene descritta – a insaputa dell’autore – l’Aglaja di questi ultimi, difficili, anni. Una donna che, come tante altre persone, deve fare i conti con un quotidiano opprimente che comanda ogni istante.
Ricordo che, una volta, per uno dei soliti stupidi giochini di Facebook, mi fu posta questa domanda: “Cosa ti spinge ad alzarti al mattino?”. Risposi d’istinto, senza riflettere: “Il dovere”. Fui sgomenta di me stessa. Ricordo benissimo quando mettevo i piedi fuori dal letto quasi di corsa, sorridendo (mi sembra incredibile scriverlo), affamata di vita, con la gioia di tuffarmi in quanto mi ripromettevo di fare (perché lo VOLEVO). Quanto tempo avevo per coltivarmi, per leggere, fantasticare, scoprire, ridere. Poi, gli accidenti della vita e il suo scorrere inesorabile, il tempo che piega il fisico e la mente, tuoi e di chi ami, mi hanno costretta al quotidiano ripetere gli stessi gesti, al dire e ascoltare parole sempre uguali, anche se diverse, private di senso fino a divenire un rumore indistinto in sottofondo. E gli impegni che si moltiplicano e ti schiacciano, e il dovere (ancora lui!) che ti annulla e non si cura di chi eri e di chi sei. La prima cosa che mi dico al mattino (e sì, parlo anche da sola, in questa mia ottusa alienazione) è “Sono stanca”. Così stanca da aver trascorso la notte insonne, così stanca da avere vuoti di memoria, così stanca da essere a pezzi prima di iniziare la via crucis del giorno. Tutto ciò ho letto in questa lirica, e ringrazio il poeta per aver disegnato me stessa prima che io illustrassi le sue parole.
Ecco il testo:
Che, delle volte,
ti senti proprio a pezzi.
Che tutti intorno,
hanno mille cose da fare:
riti, impegni, celebrazioni,
liturgie familiari, scadenze,
e tu te ne stai lì,
a chiederti: forza, oggi,
dove la prendo.
Troppo occupato il mondo.
Pieno. Saturo.
Su tutto domina la dittatura
delle cose da fare,
del colpo più subdolo:
quello che in nome dell’esserci
ci nega l’essere.
Gianluigi Gherzi
Descrizione dell’immagine.
Una parete di mattoni rossi. Un pavimento di larghi listoni di legno chiaro. Una manichina, con la gabbia inferiore di legno scuro, è ferma al lato sinistro del disegno. Dal busto pende un braccio con la mano rivolta a chi guarda, in un gesto che par dire “Guarda come sono ridotta”. L’altro braccio giace appoggiato a terra, il palmo della mano fermo in analogo sgomento. Dalle spalle è spiccata la testa, che possiamo vedere appoggiata al basamento di legno, da dove partono i listelli che formano la gabbia della manichina. Il capo è glabro, gli occhi sembrano prossimi al pianto, come la bocca, piccola e chiusa in una smorfia tra la pena e il disgusto. Sulla parete, un manifesto che si sta staccando da un lato, dove sono scritti i versi della poesia di Gianluigi Gherzi. In alto, a sinistra, incise sulla superficie di un mattone, le parole “A PEZZI”.