Figure, La finestra sull'anima

Le patate

La poesia di Beatrice Zerbini, letta da Simona Garbarino nel nostro appuntamento de “La finestra sull’anima”e che ho scelto di illustrare, è la seguente:

Le patate, una cassa di patate:
le guardo appoggiate

l’una sull’altra, come un sonno in colonia,
nel convitto anni Sessanta.

Le ispeziono ammutolita,
dal decoro stipendiato della mia
pausa pranzo, dalla nostra carestia
(di molto pochi giorni insieme);
mentre aspetto,
seduta all’ipocalorico tavolino,
che sa di ceci e rosmarino;
aspetto che
tu ami me.

Sono un tubero anch’io,
non mi prospetto felicità scontate,
amore futuro, padelle o braci,
baci:
ti aspetto al buio,
per non germogliare.

Mi sento
inerme bionda, tutta buccia, soda e
levigata, letargica, dissotterrata.

Qui è tutta un’attesa di nutrirti
o di marcire.

Beatrice Zerbini

patata

La lirica è tutta incentrata su una antropomorfizzazione allo specchio, se mi passate il termine. Un panismo tuberoso e sensuale, volendo ancora giocare con le figure retoriche, à la mode del D’Annunzio dell’Alcyone.
Mi spiego meglio: l’antropomorfizzazione è una figura retorica che consiste nell’attribuzione di comportamenti, pensieri, tratti (anche psicologici e comportamentali) umani a qualcosa che umano non è. E qui è facile vedere come la patata, spunto per le fantasticherie della donna, abbia le caratteristiche di una persona innamorata e in attesa di ricongiungersi con l’amato. Ma, specularmente, anche la donna si appropria delle caratteristiche del tubero, declinate in aggettivi e sostantivi ad esso riferiti. E qui entra in gioco quel panismo dannunziano che ricordavo prima, quello che vedeva le creature umane trasformarsi e fondersi in altre creature terrestri (ricordate l’Ermione de La pioggia nel pineto? La sua trasformazione in un albero?).
L’originalità – fatta di sottile ironia – di Beatrice è la scelta dell’oggetto della trasformazione: non “bossi ligustri o acanti” (cito il Montale de “I limoni”, che già si burlava del Vate, dichiarando di preferire i semplici e solari limoni liguri) ma una semplice patata, proprio quella che, in chiacchiere volgarotte, va ad identificare il sesso femminile. E allora che femmina sia, e sia femmina che ama, che aspetta, che resta nel buio di un tempo sospeso, in attesa dell’arrivo del suo amore per darsi in pasto a lui. O di marcire, se l’attesa fosse vana.
Questa lunga premessa riempie lo spazio della mia consueta descrizione dell’immagine, che è semplicissima: siamo nel buio (non nero, ma virante a un blu notte profondo). Appoggiata in basso c’è una patata, gialla, liscia, appena segnata da poche macchie di terra). Intorno ad essa, però, vi è un chiarore che rompe la profondità della tenebra: è emanato dallo stesso tubero in cui è aperto un varco, una porta luminosa dalla quale sta entrando la silhouette in controluce di un uomo, la cui ombra lunga si proietta nella luce che esce dalla porta. (Per eventuali interpretazioni freudiane rivolgetevi a un analista 😀 )
Le parole di Beatrice inserite intorno al chiarore del tubero sono:

“Sono un tubero anch’io”

“ti aspetto al buio,
per non germogliare”.

“Mi sento
inerme bionda, tutta buccia, soda e
levigata, letargica, dissotterrata.”

“Qui è tutta un’attesa di nutrirti
o di marcire.”

Beatrice Zerbini

P.S.: Ascoltate anche il gioco fonico/semantico, il ritmo, le rime nascoste. La tecnica veicola i sentimenti: questa è la voce della poesia che rimane.

#Aglaja

 

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