Parole

Allucinazioni olfattive

Solitamente, la cassetta della posta era sempre zeppa, sì, ma di cartaccia: depliant, volantini, reclame di prodotti incredibili, servizi imbattibili, offerte irripetibili.

Quella mattina, tuttavia, la cassetta era vuota. O così gli parve, mentre infilava le dita nella fessura per un prudente scrupolo. Quando le ritirò, le dita non stringevano nulla, neppure una sgradevole bolletta, neppure una banale cartolina illustrata (da quanti anni non ne riceveva più una?). Nulla, però… Però. Qualcosa nel suo cervello, un campanello d’allarme flebilissimo, una sensazione indefinita e indefinibile, si agitò senza concretizzarsi.

Fu qualche minuto più tardi, quando, al freddo della fermata dell’autobus, egli portò la mano alla bocca, nel gesto educato di coprirla per un colpo di tosse, che ne ebbe coscienza: le sue dita profumavano di pane appena sfornato. Un aroma delizioso, invitante e irresistibile, che subito lo fece allontanare dalla fermata (incurante del bus che stava sopravvenendo) e dirigersi dal vicino panettiere, dove acquistò sei croccanti e ancora caldi panini all’olio. Si disse che avrebbe scontato l’inconsueto peccato di gola mattutino, recandosi a piedi fino al negozio dove lavorava come commesso: si trattava in fondo di sole tre fermate e soltanto la sua atavica pigrizia lo faceva aspettare ogni giorno il mezzo pubblico, rinunciando a una sana passeggiata.

Così fece, e di buon passo giunse alla meta persino prima del solito. Adele, la proprietaria di “NONSOLOMIOPI: la boutique delle lenti” lo accolse sorridendo: “Buongiorno, Alfredo. Siamo in anticipo, oggi, eh?”. Egli rispose al suo sorriso timidamente, con un cenno affermativo del capo. Non era di molte parole e ciò gli era spesso rimproverato affettuosamente dalla principale, una donna già avanti con l’età, tanto cordiale e comunicativa quanto Alfredo era timido e riservato. “Finirà che mi farai perdere tutti i clienti!” ripeteva sempre, scuotendo il testone canuto, al suo giovane e scorbutico commesso quando lo vedeva porgere freddamente, senza alcun commento, nuovi modelli da far provare a signore capricciose e incontentabili, che volevano in realtà essere solo rassicurate sul loro perdurante fascino ipermetrope. Egli le detestava tutte. Detestava anche quei ragazzi che trascinavano madri troppo deboli all’acquisto di improbabili occhiali firmati, dal costo proibitivo, ma dal garantito prestigio presso gli amici. Detestava persino i professionisti sempre di fretta, che entravano nel negozio infastiditi dalla perdita di tempo che ciò comportava e che, miopi o presbiti che fossero, non lo vedevano comunque. Essi ordinavano sempre lo stesso tipo di montatura, sobria, elegante, costosa: cambiava solo il grado delle lenti, sempre più forte col crescere degli impegni e del conto in banca.

Alfredo era più dolce e spendeva qualche parola in più quando serviva sgomente vecchiette che non leggevano più la bolletta della luce, bambini condannati ad essere burlati come “quattr’occhi” dai compagni, ragazzine ancora più timide di lui che domandavano sottovoce lenti sfumate per nascondere i loro sguardi.

Quella mattina, però, alle undici non era ancora entrato nessuno. Capitavano, giornate così, e Alfredo (guai lo avesse immaginato la sua principale) ne era segretamente contento. Aveva modo di fantasticare tranquillamente, di ripensare a un personaggio di un libro letto, a un particolare di un ricordo, a un progetto mai realizzato e – per questo – meraviglioso. Stava proprio grattandosi il naso, immaginando di aprire una piccola libreria a New York, quando di nuovo si accorse che le sue dita profumavano. Questa volta non di cibo, ma di stampa: l’inconfondibile odore di carta e inchiostro dei libri freschi di stampa scaturiva dalle falangi e impregnava l’ambiente. I suoi occhi si spalancarono dietro le lenti (eh sì, ovviamente anche Alfredo era miope, miopissimo!) e saettarono in ogni parte del negozio per vedere se qualcuno, la principale o il ragionier Albini – che quella mattina era venuto a rivedere i conti con Adele – si fossero accorti di qualcosa. Nulla. I due continuavano a confabulare di entrate e uscite senza dar segno di attenzione ad Alfredo e alle sue percezioni olfattive. “Ho le allucinazioni?” si chiese il timido commesso, in un tentativo di razionalizzare il fenomeno. Si annusò circospetto le mani e scoprì con sgomento che l’odore era cambiato: un aroma di caffè, forte e intenso, saturava, così gli parve, l’ambiente. “Alfredo, caro, puoi andare fino al bar di fronte a prenderci due espressi?” lo apostrofò improvvisamente Adele, facendolo sobbalzare. Senza neppure rispondere, scattò verso la porta e si precipitò in strada. Doveva stare calmo: sicuramente era stata una curiosa coincidenza a spingere Adele a fargli quella richiesta proprio mentre le sue dita sembravano una torrefazione brasiliana. Riuscì a convincersi che lo stress gli stava tirando un brutto scherzo e, rasserenato, entrò nel bar. “Due espressi da portar via e una camomilla da bere subito” ordinò alla ragazza dietro il bancone. Mentre attendeva i caffè e la sua camomilla, disse a se stesso che avrebbe avuto bisogno di un po’ di pausa: certo, aveva ripreso da poco il lavoro, dopo il periodo di ferie del negozio, ma che vacanze erano state? Quindici giorni da suo padre, al paese, in campagna, chiusi nei loro silenzi e nel loro passato. Si vedevano poco, e quel poco trascorreva sempre troppo lentamente per la loro reciproca – non rivelata ma ormai consapevole – estraneità. Era tornato in città più stanco e più triste di prima, con fantasmi mai rimossi di affetti perduti, di giorni di sole, di grandi speranze, di carezze tenere e indimenticate.

Intanto era arrivata la sua camomilla ed egli si confortò del calore della tazza tra le sue mani. Ma che strano effluvio aveva quella camomilla: sembrava, anzi, *era* un lieve sentore di talco, lo stesso profumo di… “Mamma!” urlò Alfredo, lasciando cadere la tazza a terra. Il bar a quell’ora era affollato e il brusio era piuttosto un baccano. Ma il grido sgomento del giovane aveva per un attimo sospeso tutti in un silenzio irreale. “Scusate, scusate” mormorava confuso, mentre la barista, gentile, gli ripeteva di non preoccuparsi. Alfredo, però, non l’ascoltava e continuava ad annusarsi compulsivamente il palmo delle mani, se le passava sul viso, con una dolcezza folle, trasportato da quel profumo che era un ricordo d’amore.

Si ricompose, infine, quando la ragazza del bar gli porse un bicchier d’acqua e lo invitò a portar via i due caffè ordinati che già si stavano freddando.

Entrò nel negozio, porse silenziosamente il vassoio con gli espressi ad Adele e al ragioniere, che continuarono a far conti, senza accorgersi del viso pallido e degli occhi febbrili di Alfredo.

Egli tornò dietro al banco. Decise di riordinare lo scaffale degli occhiali per bambini. Ed ecco che dalle sue dita, delicatissime nel piegare le fragili stanghette e nel riporre gli astuccini colorati, si sollevarono i più disparati profumi: dallo zucchero filato alla gomma da masticare, dalla coccoina al grasso della catena della bici, dall’erba bagnata al sangue di un labbro spaccato. Terminò il lavoro che aveva iniziato con il consueto scrupolo accigliato. Quindi andò da Adele, interrompendo educatamente la sua conversazione con il ragioniere, e la informò, scusandosi, che non poteva stare lì dentro un minuto di più. La lasciò attonita e senza altre parole, uscendo in fretta dal negozio per recarsi alla vicina stazione ferroviaria.

Mentre allo sportello prendeva un biglietto per il suo paese, avvertì sulle dita l’odore del tabacco da pipa di suo padre…

(Lascio ai lettori che hanno avuto la pazienza di arrivare sin qui, la conclusione di questo racconto: io ne ho in mente una – da anni – ma non l’ho mai scritta)

Aglaja

Senza titolo 2

4 pensieri su “Allucinazioni olfattive”

  1. L’aveva trovato . Per tutti questi anni era stato invaso da queste allucinazioni olfattive , ed ogni qualvolta pensava a suo padre , i ricordi gli facevano sentire il profumo del pane caldo del mattino , il caffe’ fumante , i vapori della camomilla, e la lettura di un buon libro . Poi il padre all eta’ di sei anni spari’ , invano cercarlo se non ricordarlo attraverso queste allucinazioni . Ma una , solo una era rimasta ed attendeva il riscontro, il profumo del tabacco. Quell’uomo sulla panchina alla stazione , oramai anziano , che passava il tempo a fare cerchi di fumo era il padre , ne fu sicuro , riconobbe anche la postura , e si avvicinò lentamente .

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    1. Poetico, ma è in contrasto con quanto scritto nel racconto, dove è detto che Alfredo aveva da poco trascorso, al suo paese, un periodo di vacanza col padre, con il quale vi era un rapporto di incomunicabilità. 😊

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  2. Bravo Arcadio Lume! Il veggente rimbaudiano è uno dei miei paradigmi ineludibili, così come Proust e la sua ricerca del tempo perduto 🙂 Aggiungici che la sinestesia per me non è solo figura retorica ma esperienza di vita e così si trova dove Alfredo sia stato concepito 🙂

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  3. mmm, Alfredo eh!? 🤔
    Ma sarà davvero tutta colpa sua, o non se ne porta forse solo qualche “senso” di troppo? Come per esempio una “vista” sopravvalutata e difettosa…
    «Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Poiché giunge all’ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Egli giunge all’ignoto, e anche se, sconvolto, dovesse finire per perdere l’intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste!» (Arthur Rimbaud)

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