“Eccola. Non ne posso più di vederla. È una zecca che si è attaccata al mio locale. È sporca. Puzza. È repellente. Si piazza dalla slot e non si schioda per ore. Stamattina era già lì, sul marciapiede, fingeva di guardare la vetrina del tabacchino, ma io ho capito che aspettava me. Viene tre volte al giorno, puntuale come la merda dopo la purga. È ingombrante. Fastidiosa. Un monolite. Avrei quasi voluto, ieri sera, che quei ragazzi la pestassero a sangue. Invece l’hanno solo spintonata via: “Togliti dalle palle, vecchia bagascia, rottame, puzzi come una fogna!” e l’hanno cacciata, finalmente, per giocare loro. E lei zitta. Si è messa in fondo, tra il bancone e la porta. Immobile. Quanto c’è stata? Un’ora? Due ore? Poi, quando quelli hanno sbaraccato, rieccola lì, a rimettere le monetine, a tirar giù la leva (ting, sdrump, trrrrrrrrrrrrrrrrrrrr). Niente (ting, sdrump, trrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr). Niente. Avanti, implacabile, finché compaiono le quattro figure uguali (dling dling dling dling dling dling!). Ed eccomela davanti, con quella faccia gonfia e inespressiva, con il suo bicchiere di cartone, zozzo come lei, pieno di gettoni. Almeno me li buttasse addosso, mi dicesse qualcosa, mandasse a fanculo, me, il mio bar, la mia macchinetta, i miei clienti che si scostano schifati quando le debbono passare accanto. Invece niente. Mi biascica: “Caffé”, oppure: “Cappuccino e brioche”. Una volta mi ha ordinato un panino al salame, con tutti quei tramezzini farciti, da sogno, che preparo per la vetrina del banco, e che fanno venire appetito ai clienti e invidia a quello del bar di fronte! Un’altra volta mi ha chiesto un Fernet e aveva una faccia verde, quel giorno, ci mancava vomitasse qui. Mi paga con una parte dei gettoni vinti, che se mi pagasse coi soldi che invece lascia alla slot si potrebbe mangiare e bere tutta la lista del giorno! Ma il resto se lo tiene: lo lascia nel bicchiere di cartone che porta con sé e si rimette lì (ting, sdrump, trrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr), maledetta piattola”.
“Eccola. Sapevo di trovarla qui. Posso entrare per la colazione o fermarmi per la pausa pranzo e sono sicura di vederla là, inchiodata davanti a quella maledetta macchina mangia soldi. Com’è gonfia… non riesco a non fissarla. Che stupida sono, prima o poi se ne accorge, magari è violenta e si mette a gridare e io odio le piazzate. Per me è pazza. O infelice. Mi fa pena. Sì, dev’essere infelice. Però ha un’espressione così assente, impenetrabile… mi fa paura. Beh, sono tante le cose che mi fanno paura, ora ci manca anche che mi intimorisca questo baule semovente! È davvero grassa. Eppure non la vedo mai mangiare. Magari lo fa quando non ci sono, dopo tutto io mica bivacco al bar come lei! Grassa, ma soprattutto gonfia. Guarda che caviglie! E i piedi trasbordano dalle scarpe scalcagnate, come il soufflé dalla teglia. E poi, i capelli! Dai, non puoi lasciarteli sporchi in questa maniera! E come li porta! Sembrano tagliuzzati a caso, con ciocche più lunghe, altre più corte. Ma come fa a uscire di casa conciata in quel modo? Scommetto che sotto quel cappotto – anche quello grigio (sarà stato quello il suo colore o è solo sporco?), grigio come i capelli, come le guance, come gli occhi cisposi – abbottonato fino al collo, ha ben poca roba. L’altro giorno spuntava dall’orlo una stoffa a fiorellini: una veste da casa? Una camicia da notte? Boh. E come le tira ‘sto cappotto, dev’essere di almeno due taglie più piccolo. I bottoni sono strani, non sono adatti a un cappotto! Troppo piccoli, non van bene. Oggi le calze ce l’ha, ma l’altro giorno sono certa che fosse senza, e dire che si gelava col vento che tira qua dal Bisagno! Come fa, poi, a non accorgersi di dare fastidio? Quando c’è mercato e il bar è affollato di signore con pacchi, pacchetti e pacchettini, e di bimbi piccoli, e di vecchietti infreddoliti, che tutti vogliono la brioche calda con la marmellata (mmm), e il caffè marocchino schiumoso, e il cappuccino col cacao spruzzato, e il krapfen con la crema pasticcera, e il latte macchiato e, soprattutto, tutti vogliono chiacchierare in pace, posando un momento gli acquisti per terra e i piedi sotto al tavolo, ebbene: lei è lì, immobile, ingombrante, con lo sguardo fisso ai disegni che cambiano velocissimi sulla macchinetta, avvolta nel tanfo di cui è impregnata, assolutamente impermeabile ai “Permesso?” “Scusi?” “Permette?” di chi vorrebbe passare. Guarda il barista, anche adesso, come la fulmina! Ma niente, esiste e permane a dispetto di tutti e tutto. Ma che ora è? Accidenti, devo scappare!”
“Fessura. Gettone. Leva. Fessura. Gettone. Leva. Fessura. Gettone. Leva. Ciliege. Campana. Arancia. Uva. Limone. Limone. Uva. Uva. Ciliege. Arancia. Campana. Campana. Uva. Ciliege. Fessura. Gettone. Leva. Perso perso perso perso perso perso perso perso. Ancora uno, ancora questo, e questo, finisco il bicchiere, ancora uno, ne chiedo altri dieci, la prossima arriva, ancora uno. Fessura. Gettone. Leva. Limone, limone, limone!! (dling dling dling dling dling dling) SÌ! SÌ! SI’!!!!!! Così, dai, sì, così, così!!! È di nuovo pieno fino all’orlo. Ancora. Fessura, gettone, leva. Ciliege, limone, uva, uva, arancia, limone. Campana. Limone. Uva. Perso perso perso perso perso perso perso perso. Al prossimo vinco. Sì, vinco. Sono viva, se al prossimo vinco. Fessura. Gettone. Leva.”.
