L’ho scritto nel 2016, dopo una vita passata a dormire nei miei ricordi. Come dicevo in altro post, sono di lunga gestazione, i miei racconti. Da allora, ogni 31 ottobre lo propongo, per condividere emozioni che, credo, anche molti di voi hanno provato.
Alle sei del mattino, il primo rumore che entrava nei suoi sogni era quello di un macinino da caffè (grr grr grr grr). Poi entravano un profumo e un borbottio: la caffettiera faceva il lavoro di ogni mattina, sei tazze per tutti, da gustare – riscaldate più tardi – con molto zucchero o da allungare col latte grasso della centrale. Quindi arrivava il ronzio monotono e acuto di un rasoio elettrico (bzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz bzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz bzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz). Era poi il turno di una porta d’ingresso che, delicatamente, si chiudeva, per poi riaprirsi e richiudersi, più o meno un quarto d’ora dopo. Finalmente bussava alle nari della bambina il profumo che, solo, la poteva rapire da quel dormiveglia e convincerla ad alzarsi, scalciando le coperte e il loro tepore, e a fiondarsi in cucina: era arrivata la focaccia calda e fragrante che il nonno era andato a comprare dalla panetteria di fronte, e che attendeva solo lei per svelarsi fumante dalla carta oleata. Di solito, ci si doveva spicciare: c’era da percorrere, per mano al nonno, una strada lunga che l’avrebbe portata alla scuola delle suore. Talvolta non c’era neppure il tempo di pucciare la sua bella striscia di focaccia nel caffellatte, ma doveva accontentarsi di sbocconcellarla (piano piano, per farla durare di più) lungo la strada. Tuttavia vi erano occasioni felici in cui si potevano fare le cose con calma: niente tapparelle tirate su rumorosamente dalla mamma (sdeghedensdeghedensdegheden), niente frase solita e detestata (“Presto che è tardi: abbiamo i minuti contati!”), e neppure il divieto di fare una delle cose più belle al mondo: mangiare e leggere. Vi erano occasioni, dicevo, in cui la bambina assaporava il piacere della lentezza, in cui la giornata partiva rilassata perché vi erano vacanze in corso, o altre in cui sapeva che avrebbe trascorso ore fuori. Fuori da casa e fuori dal consueto. Il giorno dei morti era una di quelle occasioni.
In quel giorno, il nonno aspettava paziente che la bimba facesse la sua colazione, poi le infilava il cappottino, le aggiustava un berrettino in testa, facendo attenzione a non sciupare il fiocchetto bianco a pois blu con cui la nonna – di malagrazia – le fermava una banda laterale di capelli, controllava che le scarpine fossero bene allacciate, quindi i due complici, liberi finalmente, potevano chiudersi alle spalle la porta di casa. La bambina e il nonno, chiacchierando con reciproco piacere o provando a fischiettare canzoni in voga o dei tempi andati, camminavano di buon passo verso il capolinea delle corriere, dai portici che costeggiavano la grande piazza dei giardini dove di solito la bambina giocava. Lì c’era anche la biglietteria e mentre il nonno acquistava i biglietti, la bimba saliva e scendeva dalla grande bilancia rossa parlante. Quando il nonno usciva, le dava sempre una monetina per avere il piacere di sentire la voce inumana (per il timbro metallico e per la fredda crudeltà con cui annunciava il peso della piccola cicciona) e di vedere uscire da una bassa fessura un bigliettino, che riportava le previsioni di un misterioso mago della fortuna. Finalmente arrivava l’ora della partenza e la corriera poteva partire in direzione del camposanto, che si trovava a qualche chilometro dal centro.
Come sempre accadeva, lungo il tragitto la bambina rimaneva silenziosa ed assorta, intenta a osservare cose e persone, case ed alberi, auto e mare. Dopo una buona mezzora, la corriera imboccava una larga strada, costeggiata da cipressi argentei. Qui, a un certo punto, la corsa finiva e i passeggeri scendevano per percorrere a piedi l’ultimo tratto. Lungo la strada, molte erano le baracche in lamiera traboccanti fiori; capannelli di gente vi sostavano per acquistare crisantemi, margherite, garofani e altre piante che, chissà perché, alla bambina sembrano sempre impolverate, come quella strada, come le sue scarpine, come i pensieri che, come sempre, le affollavano il cervello e l’umore. Solitamente il nonno comprava mazzi di crisantemi d’un giallo pallido, che venivano avvolti rumorosamente nelle pagine di vecchi quotidiani. La bambina cercava di leggere, col capo di traverso, titoli di mesi prima, come se il tempo, nel luogo dove il tempo era finito, potesse magicamente tornare indietro.
Varcato l’ingresso monumentale, in prospettiva appariva lontana e vicina, all’incrocio di linee immaginarie, disegnate da cipressi e tombe marmoree, una chiesa che si ergeva opprimente, respingente, null’affatto consolatoria. Il nonno non la portò mai all’interno, preferendo indugiare tra i viali, nei campi, sotto i porticati, nelle cripte. I campi alla bimba sembravano sterminati. Qui molte erano le croci, di marmo, di ferro o di legno. Sotto una di queste vi era la madre della nonna, la terribile bisnonna còrsa, morta pochi giorni dopo averla presa in braccio neonata (come sempre le veniva ricordato). Il nonno toglieva i fiori quasi polverizzati dell’anno precedente e depositava i nuovi. Una preghiera veloce era sufficiente. In alcuni punti la terra era smossa per avere appena accolto il corpo di chissà chi. Era sul “chissà chi” che la bambina si interrogava, quella era la parte più eccitante e coinvolgente di quella giornata. Leggeva avidamente gli epitaffi, le frasi scritte in un italiano antico e colto, una lingua alta ed altra dalla vita che volevano rappresentare, cristallizzandola. Occorreva in poche righe raccontare il dolore dell’addio, di un amore strappato, ma anche il successo di un’attività, di una professione, lo sgomento di chi restava e l’imprevedibilità della morte, persino quando attesa. Sotto i porticati, la bambina si perdeva a studiare le statue di marmo che rappresentavano persone di un’altra epoca, con vesti e acconciature di un passato per lei non familiare. Angeli che sorreggevano corpi abbandonati, madri straziate che cercavano di trattenere bimbi ghermiti da esseri spaventosi, fanciulle eteree dallo sguardo ormai vuoto, gentildonne e gentiluomini imbozzolati in pose ed abbigliamenti che dovevano suggerire la loro rispettabilità. Ma erano le tombe dei bambini morti che più di ogni altra cosa la attiravano. Trovava una dolorosa consolazione nel leggere quanto amore avevano saputo suscitare. Ne immaginava il motivo della morte. Si convinceva che fossero lì, accanto alle loro tombe, cercando di raccontare, a chi sapeva udirli, la loro storia. E poi quei muraglioni altissimi, sezionati in piccoli rettangoli di marmo, che accoglievano i resti di chi non aveva tombe di famiglia, con foto color seppia impresse su ceramica, immagini sgranate che prolungavano effigi ormai dimenticate. Lì, per esempio, c’erano i genitori del nonno, non accanto, però. Il vecchio signore doveva spingere una scala altissima, di ferro, le cui ruote stridevano mentre faticosamente la spostava, da una parte all’altra della parete, per poi arrampicarsi cauto fino al loculo. Cambiava il piccolo lumino, metteva i fiori che aveva portato con sé nell’arrampicata, mormorava qualche parola e riscendeva un po’ traballante dalla nipotina, che aveva seguito con ansia quelle manovre. Dopo scendevano in una cripta dove erano sepolti i bimbi morti appena nati. Minuscoli loculi, con il solo nome, custodivano la memoria di indicibili dolori. Lì c’erano i bimbi del nonno, un maschio vissuto solo poche ore e una femminuccia morta dopo alcuni giorni.
Ogni anno, ogni volta come fosse la prima, il nonno raccontava alla nipotina come erano andate le cose: la nonna non riusciva a portare a termine le gravidanze e solo tre volte era riuscita a partorire. La terza era la mamma, nata settimina ma con una forza incredibile che l’aveva fatta sopravvivere, mentre i primi due bimbi non c’erano riusciti. Il nonno si soffermava soprattutto sulla bambina, Mirella: sembrava potesse farcela, lui era andato in pasticceria, aveva ordinato un rinfresco, voleva far festa allo scricciolo che DOVEVA vivere. La veste di trine, candida come la cuffietta, era pronta per il battesimo. La mattina della cerimonia la trovarono morta in culla. In quel frangente arrivarono i fornitori con i vassoi traboccanti di paste e delizie. Scoperta la tragedia accaduta, se ne andarono in silenzio, senza voler essere pagati. La neonata fu avvolta in quella bianca veste battesimale per la sepoltura e così fermata nel tempo con una fotografia. Ogni volta, concludendo il racconto, il nonno piangeva, come se rivivesse ogni istante di quella sofferenza e la bambina soffriva con lui e aveva l’impressione di essere stata lì, di aver aggiustato la cuffietta sulla testolina di Mirella, di averne spiato i respiri, di averle abbassato le palpebre su quei piccoli occhi orientali che ancora sembravano fissarla dalla foto. Il vecchio e la bambina, tenendosi per mano, uscivano allora dal cimitero, in silenzio. Ripercorrevano a ritroso la strada impolverata, calpestando i ricordi e qualche fiore caduto. Salivano sulla corriera del ritorno e aspettavano che ripartisse. La bimba, con il capo appoggiato sulla spalla del nonno, ne sentiva il leggero profumo. Le sembra di sentirlo anche ora.

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