Lo notò per prima una signora robusta, non giovane ma neppure vecchia, i capelli rossicci con ampia ricrescita bianca, malamente trattenuti sulla nuca con una pinza nera. Non era stato difficile notarlo: del resto erano solo loro due, nel lungo pomeriggio afoso, seduti in quella saletta dalle sedie sgangherate di metallo, fuori dal reparto di diagnostica per immagini. Lui stava appollaiato sul bordo, quasi sentisse il freddo di quella seduta poco accogliente penetrargli nelle ossa del bacino, appena protetto da grigi calzoni lisi e poca carne. Dopo aver vanamente cercato di distrarsi con una rivista vecchia di molti mesi (nel frattempo la coppia in copertina era scoppiata e il governo caduto), la signora si alzò in piedi e cominciò a passeggiare nervosamente finché sbottò: “Ma insomma! Quanto lo tengono?”. Era evidentemente una domanda fatta tra sé e sé ma ad alta voce, non potendo più l’ansia contenersi nei pensieri. Normalmente sarebbe caduta nel silenzio, magari accompagnato da un’occhiata di comprensione o di fastidio, avrebbe tutt’al più guadagnato una di quelle brevi esclamazioni sospirate da chi condivide analoga attesa, un “Eh…” o un “Già…” oppure, scialando, un “Bisogna avere pazienza” o un “Vedrà che tra poco esce”. Invece quel signore sottile e grigio si levò, sciogliendo il suo corpo alto e sgraziato da quell’accartocciamento di fortuna e portandolo a fianco della signora robusta. Si chinò leggermente verso di lei e, con voce grigia e sottile, le chiese: “E’ molto che aspetta, signora? Chi sta attendendo, se posso permettermi?”. La donna si girò verso di lui e ne incontrò lo sguardo, trovandovi sincera partecipazione. “C’è mio marito, lì dentro” si decise a rispondergli “E’ più di un’ora che lo hanno portato a fare la TAC e ancora non è uscito” e finalmente tutta la preoccupazione che aveva trattenuto dietro le palpebre pesanti e il viso gonfio, si sciolse in parole: dopo quella frase, infatti, la signora raccontò – senza ulteriori sollecitazioni da parte dell’uomo – i malori che via via negli ultimi tempi si erano sempre più spesso presentati al marito, che proprio quella mattina si era accasciato in ufficio, senza un lamento, ed era stato portato subito in ospedale dove stava facendo i primi accertamenti. La donna stava ancora parlando, quando le porte della sala diagnostica si aprirono e ne uscì in barella, spinto da due infermieri, suo marito. Ella gli si precipitò a fianco, gli afferrò la mano ed iniziò a parlargli con concitata dolcezza, camminando, chinata su di lui, fino all’ascensore che lo avrebbe riaccompagnato in sala medica. Poi, come un lampo, le balenò l’immagine di quel signore grigio e sottile con cui stava parlando fino a pochi minuti prima e si girò per salutarlo, ma il suo sguardo trovò solo la sala d’attesa vuota.
Un’altra volta fu avvistato nel corridoio di oncologia. Questa volta indossava una tuta grigia, che metteva in risalto la magrezza ossuta e allampanata del suo corpo. Camminava su e giù in quell’antico viale di marmo, dalle altissime volte e dalle immense vetrate appannate dal tempo e dall’incuria, sul quale si affacciavano le grandi porte bianche che portavano alle diverse corsie. Si muoveva senza fretta, con quelle gambe lunghe e sgraziate, trascinando i piedi magri, protetti da improbabili calzini bianchi e ciabatte da mare rosse. I suoi occhi avevano uno sguardo strano, come se si accendessero di interesse a intermittenza, per poi ripiombare in un’espressione assente. In quel corridoio erano disseminate, proprio sotto le vetrate opache, dalle quali si stentava ad intravvedere un antico giardino esterno, le solite sedie di metallo, su cui si lasciavano cadere pazienti attaccati a flebo che facevano scivolare accanto a loro, oppure parenti in visita che mascheravano l’inconfessata noia, giocando col telefonino o leggendo giornali spiegazzati, lasciando che parole inascoltate o sentimenti simulati facessero da refolo all’indifferenza. Altri, invece, pazienti o visitatori che fossero, si abbandonavano allo sconforto, lasciando che le lacrime rotolassero sulle guance come macigni sull’anima. Non tutte le sedie rimanevano occupate a lungo e l’uomo sottile e grigio, appena ne vedeva una vuota, l’occupava subito, sedendosi sul bordo in quel modo bizzarro. Rimaneva in silenzio, ma non appena qualcuno accennava a lasciar cadere un’osservazione, un sospiro, uno sbuffo, un lamento, ecco che subito interveniva, con quella sua vocetta grigia e sottile, mostrando un genuino interesse che convinceva l’interlocutore a lasciarsi andare allo sfogo: “Sono giorni che la tengono in osservazione…”, “Sapessi almeno quando… SE potrò riportarmela a casa…”, “Ormai non capisce più niente”, “Dopo sette anni, capisce? Eppure avevano detto…”, “A questo punto spero solo che muoia, che Dio mi perdoni…”, “Mio figlio, mio figlio… aveva detto che sarebbe venuto, ma…”, “…e poi ha cominciato a gonfiarsi la gola…”, e via raccontando. Il signore grigio e sottile annuiva o scrollava la testa in segno di approvazione o di sconforto, lasciando intendere che potesse comprendere ed immedesimarsi in quanto gli veniva confidato. Poi capitava che il paziente venisse richiamato in corsia, o il parente potesse finalmente interloquire coi medici, o il visitatore dovesse congedarsi. I saluti allora erano frettolosi, ma tutti riferirono più avanti che quell’uomo (ma chi era? Un ammalato? Un infermiere? Un familiare? Ripensandoci, di sé non aveva rivelato nulla) pareva essere inghiottito dal corridoio, tanto si dileguava velocemente.
Molti affermarono di avergli parlato in neurologia, altri in attesa della risonanza magnetica, alcuni sostennero di averlo visto uscire (o entrare) da terapia intensiva. A volte in tuta, altre con un impermeabile senza cintura, in alcune occasioni in giacca e cravatta, in altre con jeans logori e maglietta grigia, talvolta con scarpe impolverate, talaltra con ciabatte da mare rosse. Più spesso lo si vide nella sala d’attesa del Pronto Soccorso. Lì capitava di notte, soprattutto, quando il silenzio della strada adiacente l’ospedale era straziato dall’urlo delle ambulanze. Ma non tutti arrivavano con l’ambulanza: molti giungevano sorretti da un congiunto o da un amico, chi tamponando ferite, chi premendo una borsa del ghiaccio su qualche botta, chi reggendosi a delle stampelle, chi arrancando penosamente, chi vomitando, chi urlando, chi piangendo. Il signore sottile, grigio come la giacca che gli pendeva dalle spalle gracili, era lì, stringendo tra le dita lunghe e gialle, un bigliettino numerato, come attendendo di essere chiamato per il proprio turno. Se la sala d’attesa era gremita, camminava instancabile, eppure visibilmente sfinito, tra lo sportello del triage e la porta della sala medica, intercettando domande, richieste, dubbi, sconforti e restituendo ascolto e solidale attenzione. Nelle notti in cui, invece, le sedie di metallo rimanevano semivuote, si portava vicino alle macchinette che distribuivano lunghissimi caffè ristretti, gasatissime bevande ghiacciate e freschissimi snack senza scadenza. Lì, prima o poi, capitava qualche giovanissimo dottore un po’ spaesato, qualche infermiera coi capelli curati e gli occhi stanchi, qualche ferito col sangue che già iniziava a raggrumarsi, qualche genitore ancora sconvolto per la tragica imbecillità del proprio figlio. E nell’assenza di suoni di quell’angolo ristoratore, appena violato dal ronzio delle macchinette, pareva più facile scambiare due parole con quell’uomo silenzioso eppure così partecipe, così empatico che riusciva naturale lasciare pezzi di sé al suo ascolto.
Poi, una mattina, un addetto alle pulizie, entrando nel bagno dei visitatori di cardiologia, trovò un mucchietto di ossa con una tuta grigia impregnata di orina e delle ciabatte da mare rosse scivolate via. Chiamò subito soccorsi, ma l’uomo grigio e sottile era ormai morto da diverse ore. Era senza documenti e non fu facile risalire alla sua identità: pareva che nessuno lo conoscesse, anche se molti asserirono di averlo visto molte volte, anzi che spesso avevano parlato con lui. Però – solo ora sembravano farci caso – egli di sé non aveva mai detto nulla, né mai aveva rivelato la propria identità e tantomeno i suoi sentimenti.
Qualche mese dopo, una donna, entrando negli uffici della questura, denunciò la scomparsa del proprio padre: “Sì, era qualche tempo che non lo vedevo, cosa vuole, una ha da fare, non può mica star dietro a tutto, no, non so cosa indossasse quando è uscito dal suo appartamento, no, non ho guardato nell’armadio, sa, da quando è morta mamma, ha sempre preferito arrangiarsi da solo, del resto, sa, io vivo lontana, ho i miei problemi a cui pensare, però sì, mi ricordo che gli piaceva vestirsi di grigio…”.
#Aglaja

Racconto meno di fantasia di quel che si potrebbe credere…
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È nato da una attenta osservazione, infatti…
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Grazie, Diogene 😊
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hai scelto un bel tono di grigio
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Grazie di cuore. L’ho pensato mentre ero seduta su una di quelle seggioline…
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Beh, l’ispirazione coglie quando uno meno se l’aspetta 😊
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Racconto tanto triste, quanto bello! 😊
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