Passava spesso in quel quartiere.
Non che dovesse farlo perché di strada per il lavoro o perché vi abitassero amici o conoscenti. Non vi era alcun bisogno di passare di lì. Neppure, che so, per un particolare scorcio panoramico, o per qualche artistico angolo esteticamente appagante. Non vi erano attrattive di alcun tipo, nemmeno negozi dalle vetrine accattivanti o dai prezzi concorrenziali. Insomma, un qualsiasi razionale e rassicurante motivo per deviare dal solito percorso e spingerlo ad andare completamente fuori dalle strade più familiari non c’era.
E perché poi avrebbe dovuto esserci? Almeno la libertà di camminare e perdersi nelle vie della sua città gli era pur concessa, sia pure con i limiti da lui stesso impietosamente imposti. A volte era convinto di essere il carceriere di se stesso, ma era sicuramente più comodo attribuire ad altri, o meglio alle sue responsabilità nei confronti degli altri, la necessità di trattenersi in un mondo penosamente sicuro, dove la rassicurazione reciproca era la farsa necessaria per sopravvivere.
D’inverno, quando le ombre violacee della sera accarezzavano prima quel dedalo di strade in cui trovava rifugio, attraversava a lunghi passi i maleodoranti vicoli e, nervoso, si spingeva dove muri di pietra erano ancora diroccati da lontani bombardamenti, dove l’ortica spuntava da ciottoli antichi, dove voci parlavano con accenti sconosciuti e, improvvisamente, si alzavano in incomprensibili ‘crescendo’ sonori, del tutto indecifrabili nella loro valenza emotiva.
Eppure non aveva paura. E di cosa, del resto? Di essere aggredito, derubato, importunato?
Impossibile.
Si sentiva sicuro nella propria invisibilità, nel suo essere gregario, che, ne era certo, erano l’arma migliore per sfuggire a domande indiscrete, a ruoli che sentiva insopportabili per la propria superba inadeguatezza, a richieste di un suo coinvolgimento – non solo cerebrale – che gli era ormai impossibile.
Impossibile.
Ancora quella parola. La chiave della sua vita.
Impossibile.
La definizione perfetta per le sue giornate insensate, per i suoi pensieri, per quei desideri che aveva imparato a non ascoltare più perché stupidi, perché impossibili.
E così camminava, naso all’aria, aggrappandosi furtivo alle vite altrui che pulsavano dalle finestre illuminate. Immaginava, da naufrago quale si sentiva, di seguire le stelle anche quando il cielo era coperto da nubi pesanti, che riflettevano le luci artificiali della città. Nel suo delirio erano state le stelle, la prima volta, a condurlo proprio lì, da quella che, da mesi, era diventata la sua meta quotidiana: una porta.
Una porta grande, che forse avrebbe potuto essere definita un portone, anche se non ne aveva il dignitoso aspetto. Una porta ad una sola anta, un tempo verde scuro, come si comprendeva da vecchie tracce di vernice, sopravvissute allo scrostamento meteo-cronologico. Non vi erano insegne, né campanelli, né etichette, nulla che potesse dare un’indicazione su ciò cui la porta un tempo si apriva. Il muro dove si trovava era, una volta, la facciata di una casa, una di quelle spazzate via e mai più ricostruite, una parte di quelle macerie vergognose lasciate a monumento dell’incuria e dello smemorato trascorrere degli anni. I resti di un marciapiede sfondato si mescolavano alla polvere di un terreno non asfaltato, dove rari passanti lasciavano le impronte di un frettoloso andare.
La prima volta che vi si era trovato davanti, si era fermato bruscamente, sbattendo le palpebre, come ridestandosi dal consueto torpore del suo divagare, quasi avesse riconosciuto in quella porta la destinazione finale di un’inconsapevole rotta.
Si appoggiava a quell’anta scrostata e, come un passante colto da improvvisa stanchezza, chiudeva gli occhi, lasciava le spalle incurvarsi, abbandonandosi a quella fantasia repressa che ora gli scintillava immagini improbabili, eppure per lui plausibilissime.
Cosa c’era dietro quella porta? Una cantina? Chissà quali resti di quale passato di quali persone conservava, avvolte nella muffa e nelle ragnatele… Certamente erano gli occhi rossi e lucenti dei topi che li custodivano divorandoli, ad assistere al loro provocato ed ammonente disfacimento.
E se fosse stato l’ingresso di uno scagno? Un ufficio che forse si trovava in fondo ad alcuni gradini d’ardesia, consumati dai passi strascinati di commessi e clienti, che lì trattavano affari per un attimo importantissimi, fondamentali nel nulla che sarebbero divenuti, nella polvere che avrebbe ricoperto incartamenti ingialliti, macchiati di umidità e postuma insensatezza.
Magari, invece, dietro la porta si trovavano ancora il bancone di legno, dal piano di marmo screziato, di una vecchia osteria, scaffali vuoti delle bottiglie e dei fiaschi dove finivano sogni e salari di poco valore, amarezze e delusioni trattenute sotto palpebre pesanti, speranze strette in mani ruvide e callose, tenere di una carezza mai data né ricevuta.
O, forse, quella porta si apriva su un cortile grande, senza aiuole o pretenziosi gazebo, solo un cortile un po’ polveroso, con vie di passaggio a ingressi interni, a scale di ferro arrugginito che portavano a disponibili entrate di case di ringhiera, i cui odori e voci rassicuranti richiamavano i monelli che giocavano dabbasso.
Tutto questo, comunque, aveva poca importanza.
Il naufrago che si appoggiava a quella porta vedendovi oltre, sentiva adesso – in quegli stessi istanti nei quali sostava inquieto, passando le dita su quel legno, incurante delle schegge che lo ferivano – sentiva, dunque, che quello sarebbe stato il passaggio definitivo, la via di fuga imprevista che lo aveva atteso, che pazientemente aveva aspettato la sua consapevolezza, il ritrovamento dovuto di se stesso, la fine dello smarrimento che lo aveva portato a fingere di essere vivo.
Aveva avuto bisogno di molti pomeriggi, di innumerevoli divagazioni dal quotidiano percorso, nonché dalla consueta recita ad uso altrui, ma ora sapeva che ciò che quella sera stava per fare doveva accadere, per forza, per necessità.
Quella sera non si sarebbe limitato ad appoggiarsi alla porta, ad accarezzarla.
Quella sera l’avrebbe violata, forzata, spalancata, certo fosse questo il gesto necessario, il lasciapassare per capire, per trovare la soluzione, per vedere ancora la luce.
Non sapeva cosa avrebbe trovato: mentre velocemente si approssimava alla meta, passava da uno stato quasi febbrile, dove le domande si affastellavano in scene previste e temute, ad uno dove la speranza di un se stesso finalmente appagato e libero, lo colmava di una gioia dolorosa, persino devastante nella sua intensità.
Eccola, la porta.
Sapeva che sarebbe bastata una spinta un po’ energica per aprirla. Già le sere precedenti, mentre vi si appoggiava, l’aveva sentita cedere sotto il suo peso. Poggiò entrambe le palme delle mani e spinse, spinse, spinse ancora, con la forza della disperazione e delle lacrime che aveva per troppi anni trattenuto.
La porta cedette e cigolò stridula sui cardini arrugginiti.
Gli si svelò piano, pietosa, aprendosi sul nulla che aveva protetto per anni.
Nulla.
Non c’era nulla dietro, se non altre macerie. Come la vita, da cui non poteva fuggire.
Aglaja
Un racconto che ho scritto quasi vent’anni fa. Potrei riscriverlo identico oggi.
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D’altro canto: “A volte era convinto di essere il carceriere di se stesso” 🙂
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💔
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