LA CASA DEL PADRE (frammento da LE STORIE DELLA BAMBINA)
C’era una strada che la bambina non percorreva volentieri.
Era la via dove abitava il padre, coi suoi fratelli e i genitori. Era il cammino per l’infelicità, per i misteri dolorosi, per gli incontri sgraditi, ributtanti, inquietanti. Era il passaggio temuto verso l’abbandono, la tragedia, il disastro. Lì c’era la casa di quegli estranei che una volta la settimana, o al mese, o all’anno (nel tempo, le visite si diradarono sempre più, con suo gran sollievo), doveva fingere di considerare parenti, fingere di vedere volentieri, fingere persino di amare (eppure, ne era certa, la finzione era reciproca: perché allora insistere e non ignorarsi?).
In seguito, da adulta, non è mai riuscita a ricostruire un episodio singolo, una visita completa, una conversazione compiuta, bensì solo frammenti di immagini e parole, e le sensazioni che aveva provato. Così oggi nella sua mente si affastellano piani e piani di scale, i cui gradini parevano ogni volta moltiplicarsi; corridoi lunghissimi che portavano a stanze piccole e poco luminose con letti monacali e mobili barocchi, crocifissi scuri e immagini di sante in estasi; un bagno angusto, con un lavandino che singhiozzava come lei, chiusasi dentro a sciacquarsi la bocca dopo i baci pretesi da tutti; uno studio grande, con foto sfuocate di carabinieri a cavallo, spade con nastri tricolori intrecciati, diplomi e attestati al valore; una sala, con un volto di Cristo appeso che la guardava ovunque lei si nascondesse, mandolini e chitarre che penzolavano alle pareti, e un organo elettrico su cui una mano scura, percorrendo veloce i tasti, mostrava alla bimba le note di “Munasterio ‘e Santa Chiara”.
Appaiono e scompaiono dalla sua memoria una vecchia piccola e magra (la nonna “baronessa”, come pretendeva di essere chiamata da chi veniva a riverirla), dalla pelle bianchissima (una trama increspata di rughe e impastata di cipria) e i capelli nerissimi, acconciati in un’impalcatura improbabile, forse per conferire regalità e altezza alla figura curva; un vecchio grosso e imponente (il nonno “Barone e Colonnello!” come testimoniavano alcune foto dove appariva più giovane, in alta uniforme, o in abito da cerimonia con indecifrabili decorazioni), gonfio nel ventre e nello sguardo appesantito da borse e palpebre cascanti; un uomo (lo zio “dottore”, “Si è laureato a quarant’anni” aveva sibilato più di una volta la nonna materna della bambina) dal sorriso sbieco e gli occhi cattivi, che le incutevano paura, con le mielose, minacciose allusioni alla loro prossima vita insieme, in Sicilia, lontano dalla mamma e i nonni (quelli “veri”, quelli materni); un altro (lo zio “ragazzo”, come lo chiamava tra sé lei, con qualcosa di simile alla tenerezza) dallo sguardo timido e l’espressione buona, che aveva l’ingrato compito di prelevarla e riportarla a casa (quella “vera”) e che, per consolarla (unico che paresse accorgersi della sua disperazione), le comprava i fumetti di Tiramolla e Cucciolo.
E poi lui, il padre: i lucidissimi capelli corvini dai ricci addomesticati di brillantina; l’odore di colonia amara e di tabacco che gli aleggiava intorno; l’eleganza innata dei modi e l’alterigia dell’occhiata severa; la finzione di ogni suo gesto, la bugia di ogni sua frase, l’ambiguità di ogni sua espressione; le storie assurde che le raccontava insultando la sua intelligenza, quasi fosse una povera scimmietta, ammaestrata a fingere di credere a quelle stupidaggini, per verificare fino a che punto lui la credesse idiota; la facilità con cui suonava quegli strumenti musicali cui dava vita ma non anima.
Ed ecco balenarle alla mente gli incontri strani, sempre lungo quella via: un amico “di famiglia” (la loro), cui viene presentata, che allunga la mano per saggiare se inizi a crescerle il seno (ecco la prima volta di quel sapore di vomito in gola…); una donna dalla generosa scollatura, che porta il viso dalle guance rosa all’altezza di quello pallido della bambina, l’esamina bene ed esclama, divertita: “Ah, è questa tua figlia?”; un collega dello zio dottore, che la scruta con pena e non la saluta, scambiando solo salaci battute con il padre.
Di suo padre la vecchia bambina oggi non ricorda altro, se non le menzogne che le avevano raccomandato di dire – solo se interrogata – su di lui, se non il gelo della reciproca indifferenza, se non il male che a ogni Festa del Papà – quando a scuola “doveva” preparare con le sue piccole mani un regalino che poi buttava via, lungo la strada del ritorno – sentiva (sente) nel cuore.
No, non era una strada che percorreva volentieri, una casa che visitava volentieri, un padre di cui parla volentieri.
Meglio il sipario.
Fine.