Parole

Lockdown

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I
31 dicembre 2019

Il 31 dicembre 2019, alle ore 13:59, il governo cinese annuncia la scoperta di alcuni casi di “polmonite sconosciuta” nell’area del mercato di animali vivi di Wuhan, nel sud del paese. Nel giro di poche settimane, i contagi e i morti in Cina aumentano vertiginosamente. La causa è il nuovo coronavirus, il Sars-Cov-2, responsabile della malattia Covid-19, caratterizzata da sintomi molto simili a quelli dell’influenza, ma con complicazioni, soprattutto di tipo polmonare, che portano alla morte. Si ipotizza siano stati alcuni degli animali uccisi e venduti nel mercato, in particolare i pipistrelli, a infettare l’essere umano. La situazione è così drammatica che nel giro di pochi giorni le autorità locali rimandano le celebrazioni del Capodanno cinese, chiudono tutti i luoghi pubblici e costruiscono ospedali d’emergenza per fronteggiare l’enorme numero di contagiati che cresce di ora in ora, vertiginosamente. Di lì a poco, il virus si sarebbe diffuso in tutto il pianeta con conseguenze devastanti. 

Milano. Il mattino del 31 dicembre 2019, Alberto stava preparando le valigie, mentre tutti i suoi conoscenti stavano preparandosi a festeggiare l’ultimo dell’anno e a dare un degno benvenuto al “Ventiventi” (come lo chiamava con aria sognante Lucia, quella che fino a qualche giorno prima era stata la sua storica fidanzata).
La sua vita aveva avuto una svolta improvvisa: aveva ricevuto la tanto attesa promozione e il direttore dell’azienda – cui aveva dedicato anni di impegno e intelligenza – nel dargliene notizia, gli aveva annunciato che la sua nuova mansione lo avrebbe portato a dirigere la filiale di Genova.
Alberto ne era stato felice e spaventato a un tempo: avrebbe potuto finalmente sposare Lucia e avrebbero messo su casa in una città che per lui era sinonimo di fascino e magia.
Era stato così fin da quando sua madre (originaria proprio di Genova), lo portava da bambino a visitare l’Acquario, ma anche a passeggiare col naso all’insù nei caruggi della città vecchia, ammirandone i palazzi antichi, alti e addossati l’uno all’altro, e gli scorci di cielo e di mare tra essi. Per non parlare di quegli angolini incantevoli dove la città diveniva borgo, e il piccolo Alberto poteva giocare coi ciottoli della spiaggia, farsi rincorrere dalle onde, parlare coi gabbiani, gustare la focaccia fragrante appena sfornata. Altre volte, invece, la mamma lo portava con un ascensore magico in un luogo incantato: da una via trafficata, dopo aver attraversato quello che sembrava un antro buio e misterioso, l’ascensore li faceva volare in alto, fino quasi a raggiungere il cielo, un cielo sotto il quale si stendevano i dedali del centro storico, le vie nuove più larghe, i palazzi e le torri di Genova fino al porto, con le sue navi e la lanterna. In questo paradiso, immancabilmente, la mamma gli comprava una granita che gli pareva squisita come nessun’altra cosa al mondo.
Come sarebbe stata la sua nuova vita? Avrebbe ritrovato la stessa atmosfera incantata dei suoi giorni d’infanzia? Peccato che sua madre fosse morta da molti anni, sicuramente sarebbe stata felicissima per quella notizia e magari lo avrebbe seguito nella nuova avventura: a Genova aveva ancora dei parenti e quella poteva essere una buona occasione per riallacciare i rapporti… Ma una breve e dolorosa malattia l’aveva portata via ancora giovane, e non aveva potuto vedere il figlio farsi strada nel mondo. Sarebbe stata fiera di lui, Alberto ne era certo.
Alberto era dunque andato all’appuntamento con Lucia col cuore che cantava: quella sera le avrebbe fatto la proposta di matrimonio e insieme avrebbero pianificato il loro futuro d’amore. Giunse in largo anticipo al bar dove dovevano incontrarsi. Era passato prima in gioielleria a ritirare l’anello che voleva regalarle quella sera e ora, entrando nel locale, cercava un tavolino che potesse garantire loro un po’ di intimità. Si guardò intorno e vide che Lucia era già lì, anche lei in grande anticipo. Era seduta di spalle e stava parlando concitatamente al cellulare. Alberto le si arrestò dietro, immobilizzato dalle parole che stava sentendo: “No, non gli ho ancora detto niente… capiscimi, è una situazione delicata… stiamo insieme dal liceo… è tanto caro, povero Alberto… ma sì, credimi, gli dirò di noi appena possibile… dai, ci sentiamo più tardi… ti amo”.
Lucia si girò per mettere lo smartphone nella borsa, appesa allo schienale della poltroncina dove era seduta, e vide Alberto. Si guardarono a lungo, in silenzio, non c’era bisogno di aggiungere altro. Alberto girò sui tacchi e uscì. Ripassò dal gioielliere che, vedendo il volto dell’uomo, non fece domande riprendendosi l’anello appena venduto e ancora elegantemente incartato nella sua confezione.

Genova. Alberto aveva quindi preparato la sua partenza in solitaria per Genova. Aveva telefonato a quei parenti genovesi di sua madre per chiedere loro qualche dritta su un piccolo appartamento da affittare in loco. Essi lo indirizzarono a una signora di loro conoscenza, che affittava – in un palazzo di pregio di sua intera proprietà, nei pressi del Duomo, in posizione strategica per i mezzi di trasporto che Alberto avrebbe dovuto prendere per recarsi al lavoro – un bilocale arredato, con bagno e cucina appena ristrutturati, e così, nel pomeriggio del 31 dicembre 2019, Alberto era finalmente giunto nella sua nuova dimora, certo con uno spirito diverso da quello che aveva immaginato quando aveva saputo della sua promozione e del trasferimento.
La padrona di casa si mostrò diffidentemente affabile o gentilmente scontrosa (un atteggiamento che Alberto riscontrò diverse volte tra i genovesi con cui ebbe a che fare) nell’accoglierlo e nel mostrargli la casa. Alberto, fidandosi dei parenti, aveva fermato l’appartamento praticamente a scatola chiusa, avendo visto online solo la planimetria e alcune foto un po’ sfocate delle stanze. La casa gli si presentò pulita e in ordine: la cucina e il bagno erano davvero stati ristrutturati di fresco e l’arredamento dell’entrata alla genovese, che affacciava direttamente sul soggiorno, e quello della grande camera da letto, con un utile angolo “studio”, era, diciamo così, d’atmosfera. La padrona di casa (che Alberto scoprì chiamarsi Ermenegilda) nel decantargli le preziosità di arredi e ammennicoli vari, gli raccomandò più volte di averne cura, perché trattavasi di oggetti di famiglia. Alberto ascoltava distrattamente, desideroso solo di essere lasciato in pace per disfare i bagagli, farsi una doccia e andare al più presto a coricarsi. Finalmente si arrivò al discorso “palanche” ed Ermenegilda intascò con altera sollecitudine l’assegno che Alberto aveva preparato: un anticipo di sei mesi di pigione. Quindi si congedò, lasciando il suo nuovo inquilino a prendere confidenza con la sua nuova dimora. Alberto alle 23 dormiva già di un sonno profondo e senza sogni, dal quale neppure i botti del Capodanno riuscirono a destarlo.

II
21 febbraio 2020

Venerdì 21 febbraio, il Sars-Cov-2 viene ufficialmente diagnosticato in Italia. “Coronavirus: primo contagio a Codogno. L’uomo non è stato in Cina”, urlano i titoli dei quotidiani. Però si viene a sapere che qualche settimana prima il paziente ha incontrato un amico che lavora a Shanghai. Il tampone conferma i sospetti: è il primo caso ufficiale di coronavirus in Italia e in Europa. Chiunque sia venuto in contatto con il “paziente zero” viene messo in isolamento. Tutti i contatti vengono ricostruiti: non si può permettere al virus di diffondersi. Nel pomeriggio si tiene la prima di molte conferenze stampa quotidiane, tenute tra gli altri dal presidente della regione Lombardia Fontana, dall’assessore al Welfare Gallera e dal ministro della Salute Speranza.

Genova. Alberto era ormai a Genova da quasi due mesi. Si era ambientato bene nella filiale che era andato a dirigere. Era stato accolto con cordialità e le nuove responsabilità gli erano state di stimolo per non pensare ai propri affari privati. Il personale si era mostrato recettivo ai cambiamenti proposti dal nuovo direttore e ben presto la filiale migliorò in termini di efficienza e produttività. Alberto trascorreva in filiale buona parte della giornata, dal mattino presto alla sera tardi, quando, prima di rientrare a casa, si concedeva cena e dopocena nei locali della movida genovese, in quel centro storico in buona parte riqualificato e più pienamente vissuto, rispetto a come lo ricordava da bambino. In pratica nel suo appartamentino ci stava solo per dormire, lavarsi, cambiarsi. Aveva fatto ben pochi cambiamenti per rendere più sue quelle stanze. Negli armadi c’erano i suoi vestiti (pochi) e la biancheria che aveva portato da Milano, lenzuola e tovaglie che appartenevano ancora al corredo di sua madre e che mai erano state usate; negli scaffali e sul comodino qualche libro; nella postazione “studio” il suo portatile, collegato al wi-fi del suo smartphone. Nel soggiorno c’era la televisione, con tanto di programmi satellitari, ma Alberto difficilmente la accendeva. Quando venne data la notizia del primo caso di Covid19 italiano, quasi non vi prestò attenzione. In realtà erano mesi che non prestava attenzione a nulla che non fossero i fatti suoi: la promozione, il trasferimento, la rottura con Lucia, la nuova vita a Genova, i traguardi della sua filiale. Si ricordava a mala pena di un qualcosa che era successo in Cina, qualcuno che mangiava i pipistrelli era morto, almeno, così gli pareva di aver capito, prima di registrare la notizia sotto la voce “Ma tanto a me chemmefrega: peggio per i cinesi”. Così, anche il paziente zero italiano venne derubricato a “Che sfiga, però”.

III
9 marzo 2020

Aumentano i contagi in Lombardia, Piemonte e Veneto. Domenica 23 febbraio, il Consiglio dei ministri vara il primo di una lunga serie di decreti-legge: “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19”. In meno di una settimana, l’Italia diventa il terzo paese al mondo per numero di contagi dopo la Cina e la Corea del Sud. Viene creata una zona rossa intorno ai comuni più colpiti dall’emergenza: nessuno può entrare o uscire e si procede con un controllo capillare dei contagi. La prima settimana di marzo è una delle più cruciali. La curva dei contagi supera la soglia delle cinquemila unità. Aumentano vertiginosamente anche i decessi. Il governo decide di adottare una serie di misure drastiche nel tentativo di contenere la diffusione del coronavirus sul territorio nazionale. La prima è la “chiusura” della Lombardia e di 14 province di Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte e Marche. Lunedì 9 marzo, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nel corso di una conferenza stampa, annuncia che tutta l’Italia è “zona rossa”, vietando gli spostamenti. Dopo qualche giorno, le misure vengono strette ulteriormente e in Italia viene imposto il lockdown. Parola d’ordine: io resto a casa, una condizione necessaria per evitare gli assembramenti e abbassare la curva dei contagi. 

Genova. “Da domani, 10 marzo, ogni attività della filiale sarà svolta in modalità smart working”. Le direttive dell’azienda erano state chiare: tutto il personale della filiale avrebbe proseguito il lavoro da casa e da casa Alberto lo avrebbe coordinato. I ritmi di vita e le nuove abitudini cui si era velocemente adeguato, venivano ancora una volta sconvolte. I primi giorni Alberto li trascorse senza quasi staccarsi dal portatile e dallo smartphone, in una frenesia organizzativa che quasi lo travolse. Poi, poco alla volta, riuscì a costruirsi una routine meno stressante e, grazie anche al buon lavoro svolto dai suoi collaboratori e dai sottoposti, le attività dell’ufficio ripresero, rallentate e sottodimensionate sì, ma senza troppi intoppi. Fu così che Alberto si ritrovò con un maggior tempo libero che, tuttavia, non sapeva come utilizzare. Le uscite per la spesa erano veloci e contingentate: imparò a fare provvista del necessario e a eliminare l’acquisto del superfluo. Non aveva avuto modo né voglia, nel poco tempo trascorso dal suo trasferimento, di instaurare conoscenze se non nell’ambito del suo lavoro, neppure aveva stretto legami che andassero oltre un educato e frettoloso saluto con gli altri affittuari del palazzo. La signora Ermenegilda, una volta intascato l’anticipo di un semestre, non si era più fatta vedere né sentire, e da quelle finestre che davano su una delle vie più belle di Genova, non si vedeva che qualche raro e veloce passante con mascherina. Sì, ogni tanto, specialmente i primi giorni, qualche vicino si affacciava a onorare qualche evento deciso in rete, per lo più cori stonati – per quanto appassionati – che Alberto però mal digeriva. Detestava anche i social e i contatti virtuali non lo avevano mai attirato. Diciamo che dalla mamma genovese aveva ereditato una certa riservatezza che sfociava spesso nella scontrosità, mentre dal padre lombardo (mancato anche lui da anni) aveva preso l’efficiente operosità e la dedizione al proprio lavoro che lo avevano distinto in azienda.
Non essendo abituato a stare con le mani in mano, un fine settimana di marzo decise di darsi alle pulizie domestiche, cosa che ancora non aveva fatto, se non nel minimo indispensabile che l’igiene imponeva. Fu così che, per la prima volta, osservò con attenzione quella casa da lui vissuta, sino a quel momento, quasi come un’anonima suite d’hotel. Invece, mentre si dava da fare con stracci e scope, Alberto prese finalmente confidenza con quell’arredamento d’antan: i folti tappeti appoggiati su un parquet un po’ rovinato dagli anni, i lampadari a gocce (così difficili da pulire!), i quadri con nature morte dai colori spenti, i mobili lucidati con cura dalla signora Ermenegilda o dai suoi precedenti affittuari, e lo stile liberty che li caratterizzava, con quei vetri colorati e quegli intagli fioriti, che davano un tocco di civettuola ma solida eleganza all’ambiente. I ninnoli di Copenaghen, posizionati su ogni ripiano, e i servizi di Sèvres, in bella mostra nella vetrinetta, rivelavano il gusto classico di chi li aveva acquistati, ma il timore di poterli in qualche modo danneggiare, avevano impedito ad Alberto di goderne l’uso. Quello che invece aveva imparato ad usare, in quei giorni di lockdown, era il piccolo salottino davanti alla televisione. Non che avesse iniziato a seguire le serie o i telefilm, ma la necessità di rimanere aggiornato su quanto stava accadendo a causa della pandemia, lo portò a lasciare i notiziari in sottofondo, anche quando decideva di rilassarsi sulle comode poltroncine rivestite di cretonne con una stampa di piccoli mazzolini di fiori azzurri. Accanto a una di queste, quella che Alberto preferiva, c’era un tavolinetto basso di ciliegio, anch’esso intagliato a motivi liberty. Sopra poggiava una lampada dallo stile incongruente con il resto dell’arredamento, come se fosse stata acquistata in tempi ben più recenti, magari dall’ultimo inquilino che aveva occupato quelle stanze prima di lui.  La lampada era di metallo, dal design industriale, con un braccio pieghevole e regolabile nell’inclinazione, in modo tale da permettere l’orientamento desiderato dell’illuminazione. La campana del diffusore, entro la quale brillava una lampadina dalla luce calda e riposante, era piuttosto ampia e lucida, e rifletteva la stanza distorcendola a mo’ di specchio convesso. Sul tavolino Alberto aveva poggiato qualche libro e ovviamente lo smartphone da cui non si separava mai, ma ultimamente un rinnovato piacere per la lettura lo aveva portato a riprendere in mano i volumi che si era portato da Milano, ma anche quelli che già si trovavano nella bella libreria del soggiorno. Erano saggi di architettura (forse appartenuti al padre della signora Ermenegilda?) e vecchi romanzi di cui Alberto rammentava a malapena il titolo o l’autore. Le serate trascorrevano così, tranquillamente, e non di rado capitava ad Alberto di addormentarsi in poltrona, alla luce della lampada e con un libro tra le mani.

IV
10 aprile 2020 

Il 10 aprile, il presidente del Consiglio Conte decide di prorogare le restrizioni fino almeno al 3 maggio. “Non possiamo vanificare gli sforzi fatti fino adesso”, afferma in conferenza stampa. Gli italiani ne escono a pezzi, distrutti economicamente e moralmente dalla continua impossibilità di mettere fine a un lockdown che sembra durare all’infinito. L’idea della ripartenza però c’è. Il premier crea una task force dedicata alla fase 2.

Genova. Ormai era trascorso un mese da quando era iniziato il lockdown e Alberto aveva cominciato a lavorare in smart working. Sorprendendo sé stesso, si stava rendendo conto che quella nuova situazione non gli pesava per nulla, anzi. Si era abituato con incredibile facilità a quello stato di semi-eremitaggio e la passione ritrovata per la lettura riempiva i tempi tra un collegamento Meet e l’altro, tra un business plan e l’altro. Ogni tanto gli arrivava su Whatsapp qualche messaggio degli amici milanesi, ai quali però rispondeva sempre brevemente, con emoticon o qualche frase di circostanza. La sera del 10 aprile però gli arrivò un messaggio che lo stordì: “Hai saputo di Lucia?”. Non riuscì a impedirsi di rispondere immediatamente: “No, cosa?”. “Si è presa il Covid. Prima si è ammalato suo nonno, poi suo padre e infine lei e il fratello”. “E come sta?”. “Eh… (faccina con lacrima)”. “EH COSA?????”. “Dai, hai capito… Lucia non ce l’ha fatta”. Alberto continuò a fissare lo schermo dello smartphone senza vederlo. Sentiva il cuore battergli in petto aritmicamente e un ronzio rumoroso nelle orecchie, come un mare in tempesta. “Lucia. Lucia. Lucia…”: il nome della ragazza che solo pochi mesi prima aveva creduto sarebbe stata sua moglie, rimbalzava nella sua scatola cranica come una pallina in un flipper. “Lucia. Lucia. Lucia…”: se non fosse stato seduto nella poltroncina di cretonne, sarebbe sicuramente caduto a terra.
Fu proprio qualche ora dopo, che accadde per la prima volta quello strano fenomeno con cui, nei giorni successivi, dovette imparare a convivere.

V
26 aprile 2020

Lunedì 20 aprile, finalmente arriva una buona notizia: per la prima volta dall’inizio dell’epidemia in Italia è diminuito il numero delle persone positive. È diminuito ugualmente il totale delle persone ricoverate nelle terapie intensive e continua ad aumentare il numero dei guariti. Qualcosa inizia a muoversi, le misure funzionano. Domenica 26 aprile, il Presidente del Consiglio Conte presenta il decreto sulla fase 2: mancano solo pochi giorni alla fine del lockdown, l’Italia riaprirà in due ondate, una il 4 e una il 18 maggio.

Genova. Erano passate più di due settimane dalla sera in cui Alberto aveva ricevuto quel tragico messaggio. Apparentemente, la vita era ripresa in quell’anomalo tran tran da lockdown: smart working, riunioni online, mail di affari, spese settimanali rapide ed essenziali. Apparentemente. In realtà, la sera in cui gli era stata comunicata la morte di Lucia, era accaduto qualcosa. Avevamo lasciato Alberto affossato e inebetito sulla poltroncina. Dopo una buona mezz’ora, aveva provato a riscuotersi, alzandosi per chiudere la televisione – che, inascoltata, aveva continuato a blaterare in sottofondo – e prendersi una birra in cucina. Poi, con la bottiglia in mano era tornato alla poltrona, quindi, scolata con pochi lunghi sorsi la birra, aveva chiuso gli occhi e, sfinito, era crollato in un sonno profondo. Era ancora notte quando si era risvegliato improvvisamente, con l’inquietante sensazione di essere osservato. La lampada sul tavolino di ciliegio era rimasta accesa e Alberto aveva potuto verificare come nella stanza non ci fosse altri che lui. Eppure quella sgradevole sensazione persisteva. Controllata la porta d’ingresso e fatta una breve ricognizione della casa, Alberto si era persuaso che lo choc per la notizia ricevuta doveva averlo scosso al punto tale da dargli delle allucinazioni. Così era andato finalmente a letto, sicuro che l’indomani tutto sarebbe stato superato. Ma così non fu, e il giorno dopo e in quelli ancora seguenti l’impressione di uno sguardo puntato su di lui non lo abbandonò. La sera del 26 aprile, dopo una giornata particolarmente stressante per certe pratiche della filiale rimaste indietro, Alberto si sentiva così stanco da non aver neppure voglia di cenare. Decise così di prendere uno dei vecchi romanzi dallo scaffale e di leggere un poco in poltrona. Appoggiò come sempre lo smartphone sul tavolinetto e aprì il libro. A un tratto gli parve di sentire il suono di un messaggio in arrivo, si girò per prendere il cellulare e fu allora che, per un istante brevissimo, vide l’occhio che lo stava osservando. Alberto ne fu talmente spaventato che non riuscì a trattenere un grido e lo smartphone gli cadde dalle mani. Ma dove aveva visto quell’occhio? Lui stesso non riuscì a capacitarsi quando cercò di razionalizzare quanto aveva veduto: l’occhio che da giorni non lo perdeva di vista era nella campana di metallo lucido della lampada! La stanza si rifletteva in essa, come uno specchio convesso, e per un attimo Alberto aveva nettamente visto l’occhio enorme di una persona, come quando una telecamera si stringe su un particolare di un viso, ingrandendolo e deformandolo. Come se quella persona fosse nel riflesso della sua stessa stanza e da quello strano specchio lo potesse vedere. Alberto aveva il cuore in gola, si sentiva malissimo, temeva di essere impazzito: troppa solitudine, troppo stress, troppi cambiamenti, troppo dolore represso! Andò alla finestra e la spalancò, respirando grandi boccate di aria fresca. Guardò fuori e vide il Duomo e la piazza antistante illuminati dalla luce della luna. Nessuno camminava nello stradone, solo qualche gatto a inseguire pantegane, pronte a rifugiarsi nei tombini o a buttarsi giù per i caruggi, che dalla piazza partivano per confluire nel cuore della città vecchia. Chiuse la finestra e rimase solo con la sua angoscia.

VI
4 maggio 2020

Lunedì 4 maggio inizia ufficialmente la fase due. Vengono riaperti il commercio all’ingrosso, la manifattura, e le costruzioni. Si può tornare a fare sport all’aria aperta, passeggiare in ville, giardini e parchi pubblici. Bar e ristoranti possono riaprire a patto che forniscano un servizio d’asporto. Si può far visita ai congiunti, una volta che si sia riusciti a capire chi siano. Tutto deve essere fatto nel rispetto totale delle norme igienico sanitarie e nella consapevolezza che se la curva dei contagi fosse tornata a salire, avrebbe potuto essere necessario chiudere tutto di nuovo.  

Genova. Il lato razionale di Alberto, nei giorni seguenti a quella incredibile scoperta, cercò in tutti i modi di trovare una spiegazione logica a quella situazione illogica. “Dunque” si diceva “La campana della lampada riflette questa stanza, ma in modo distorto. Forse quello che ho creduto essere un occhio era solo il particolare deformato di un qualcosa, forse un quadro?”. Ma in quella stanza vi erano solo quadri di nature morte e nessun ritratto. Neppure vi erano cornici con fotografie di parenti della signora Ermenegilda. “La televisione! Forse c’è stato il riflesso di una persona che era in televisione!”. Ma anche quell’ipotesi non reggeva, infatti la lampada, dal lato in cui era posizionato Alberto seduto in poltrona, non poteva riflettere altro che la libreria, la poltrona stessa e… “Ci sono! L’occhio era il mio! Allungandomi verso il tavolinetto per prendere lo smartphone, mi sono chinato verso la lampada che mi ha rimandato un frammento del mio viso!”. Certo, questo non spiegava la sensazione provata anche nei giorni precedenti, quella di essere costantemente osservato, ma Alberto aveva bisogno di tranquillizzarsi e si fece piacere quella soluzione.
Qualche sera dopo, però, il fenomeno si ripresentò: sensazione di uno sguardo su di sé, veloce voltarsi verso la lampada, un occhio irrealisticamente deformato che lo osservava, il grido di Alberto nel vederlo, sparizione immediata dell’occhio. “Non può essere il mio occhio”, si disse Alberto, col cuore che gli batteva all’impazzata “Io ho gli occhi marroni, mentre l’iride nella lampada era…” Si sentì mancare. L’iride di quell’occhio che non lo perdeva mai di vista era verde. Come gli occhi di… “Lucia! No! Non diventerò pazzo, no, NO!”. Prese la lampada, la staccò con una certa violenza dalla presa e corse fino all’armadio dell’ingresso dove la ripose – nel ripiano più alto – senza più guardarla.
Il 4 maggio la filiale finalmente riapriva. Alberto si recò nel suo ufficio con un certo sollievo. Tutta quella situazione lo aveva prostrato e reso un fascio di nervi. Gli ultimi preparativi online prima della riapertura lo avevano preso quasi notte e giorno: le disposizioni della sede centrale, la revisione del fatturato, il ridimensionamento del personale, i contatti con i fornitori, tutte cose di grande responsabilità che richiedevano la massima concentrazione da parte sua. Rivedere di persona i collaboratori e gli impiegati, tutti provvisti di mascherina e tutti a debita distanza l’uno dall’altro, gli diede un brivido sia di piacere che di tristezza. In quei mesi di lockdown aveva saputo che qualcuno di loro era stato contagiato, ma era guarito, qualche parente più anziano era venuto a mancare, qualcuno aveva patito la lontananza della persona amata, quella che ora veniva definita “congiunto”. Ecco, ora ci si poteva di nuovo “congiungere”. “Sì, come no” si diceva Alberto, consapevole di non avere più nessuno cui congiungersi. Si buttò nel lavoro per togliersi quei pensieri di testa e la giornata, tutto sommato, filò via veloce. Alla sera, tornò nel suo appartamentino, stanco ma relativamente soddisfatto.  La sua friggitoria preferita aveva riaperto e faceva il servizio da asporto, così aveva ordinato farinata, frisceu (frittelle) e una bottiglia di vermentino. Dopocena, si mise a leggere sulla sua poltroncina di cretonne. “Certo che la vecchia lampada sul tavolinetto illuminava molto meglio le pagine del libro”, pensò. Il lampadario del soggiorno, in effetti, era dotato di due sole lampadine, di quelle a risparmio energetico che, sì, risparmiavano l’energia, ma consumavano gli occhi! Alberto si convinse che era arrivato il momento di liberarsi di quell’ossessione angosciosa che tanto lo aveva tormentato nelle settimane precedenti. “Vado a riprendere la lampada e la riporto qui. Fanculo alle fantasie da stress! Vita nuova!”. Così andò verso l’armadio, l’aprì e, non senza fatica, tirò giù dall’ultimo ripiano la lampada. Mentre si dirigeva verso la poltrona, gli venne in mente di passare in cucina a prendere la bottiglia di vermentino, per finirla in poltrona. In cucina, per aprire il frigorifero, posò un attimo la lampada sul tavolo davanti ai fornelli e lì vide qualcosa di straordinario: riflessa nella campana della lampada c’era una donna che stava cucinando. Alberto, ammutolito, non riusciva a staccare gli occhi da quella scena. Poi la donna del riflesso si girò e disse: “Alberto, finalmente! Hai fatto tardi! Ti ho tenuto in caldo la cena. Ti va di mangiare qualcosa o andiamo subito a coricarci?”. “Ho già cenato, Lucia. Andiamo a letto”, rispose Alberto.

VII
18 maggio 2020 

Il 16 maggio, Conte annuncia che da lunedì 18, gli italiani possono tornare a muoversi liberamente all’interno della propria regione, possono riaprire le attività commerciali. Certo, le misure di sicurezza vanno sempre rispettate e si dovrà continuare a farlo ancora per molto tempo. 

La signora Ermenegilda aprì l’appartamento e lo mostrò al suo nuovo inquilino. “Si accomodi, prego. Come vede le stanze sono ampie e affacciano su Via San Lorenzo. La metropolitana è in alto, a piazza De Ferrari, può raggiungerla in pochi minuti a piedi. Nell’armadio troverà della biancheria pulita. Pensi che alcune tovaglie e lenzuola, pregiatissime, le ha lasciate il vecchio inquilino prima di sparire improvvisamente. In realtà ha lasciato anche molto altro, un portatile, lo smartphone, i vestiti… Si immagini che neppure al lavoro lo hanno più visto: sparito nel nulla. Non ha lasciato un biglietto, non ha fatto una telefonata, niente! Comunque, i sei mesi di affitto me li aveva lasciati in anticipo, quindi… affari suoi”. Mentre la signora e il suo nuovo affittuario giravano per le stanze, non si accorsero che, nel riflesso della campana della lampada in stile industriale, poggiata sul tavolinetto liberty di ciliegio, un uomo seduto su una poltroncina di cretonne, teneva in braccio una donna dagli occhi verdi che lo stava baciando.

Genova, 4 Agosto 2020

Aglaja

2 pensieri su “Lockdown”

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