Fughe

Torna a LE PAROLE DI AGLAJA

CONFESSIONI PENDOLARI

Arrivò alla stazione di G. in perfetto orario. Le cinque e trentaquattro del mattino, ora di partenza del primo regionale diretto nel capoluogo. Il paesino era ancora silente e sonnacchioso, come i pochi pendolari che vaporizzavano i loro sbadigli nell’aria gelida di quell’inverno anticipato. Per arrivare alla stazione, aveva dovuto uscire di casa prestissimo: alle quattro e venti partiva la corriera che collegava la città a G. e lei non voleva perdere per nessun motivo quel treno con pochi scompartimenti che l’avrebbe, poi, riportata indietro, al punto di partenza. Adesso batteva i piedi per riscaldarsi un poco e si stringeva nel cappottino celeste, inadeguato alla stagione, allo scompartimento sporco che presto l’avrebbe accolta, al suo stesso umore.

Finalmente l’annuncio e, poco dopo, il fragore del treno in arrivo, appena smorzato dalla nebbia che avvolgeva cose, case e pensieri.

Salì con qualche difficoltà – le ossa pativano l’umidità del mattino – ma non si sedette subito. Come incerta, percorse lo stretto corridoio: molti erano i posti liberi e chi si era accomodato ciondolava il capo già vinto dal sonno perduto, o socchiudeva le palpebre per riprendere il filo del sogno interrotto. Scelse infine un posto di fronte a un uomo di piccola statura, la barba del giorno prima, il viso testimone di anni trascorsi a vivere e a spostarsi, forse un tempo con entusiasmo, poi sempre più stancamente.

Sistemò con cura il suo cappottino celeste, ripiegandolo con meticolosità, e si lasciò finalmente cadere sul sedile ancora impregnato del fumo e della spossatezza dei molti viaggiatori che nel tempo aveva accolto.

Fu immediatamente dopo che cominciò a parlare, prima lentamente, poi come un fiume in piena, ma sempre sussurrando le parole, senza aver neppure accennato un gesto di saluto o un timido convenevole per il suo compagno di viaggio.

Questi, dapprima, non comprese. Cortesemente si sporse verso la donna come per chiederle di ripetere, immaginando volesse domandargli un’informazione. Poi si accorse che la signora neppure lo guardava negli occhi, se non nelle brevi pause per prendere fiato, e proseguiva una sorta di monologo di cui subito non riuscì a capire che poche e scoordinate frasi. Ma man mano che il discorso si faceva più pieno, più spiegato all’orecchio ormai attento dell’ascoltatore, il senso appariva più chiaro. E tremendo.

La signora stava riversando sullo sconosciuto un dolore insopportabile, rivelando pensieri atroci, scelte subite e passi non fatti, il peso del male inferto e ricevuto, ferite e silenzi, accuse e ammissioni. Non attendeva risposte dall’uomo, neppure gliene avrebbe concesso il tempo. Terminò soltanto quando già le luci della stazione annunciavano la raggiunta meta, quasi avesse calcolato che la durata di quanto doveva dire coincidesse con quella del percorso. Allora si alzò, infilò con calma il cappottino e chinò lievemente il capo, in un gesto di grato congedo.

Il viaggiatore rimase al suo posto, ancora sbalordito per quanto era accaduto. L’invito sollecito del capotreno ad affrettarsi e scendere parve ridestarlo. Addirittura, si precipitò nel corridoio e quasi si scaraventò giù dalla porta del vagone, per ritrovarsi sotto la pensilina ormai deserta del binario. La donna non c’era più.

°°°

L’indomani mattina, alla stazione di R., alle cinque e diciotto, una signora con un cappottino celeste salì in fretta i gradini che portavano all’interno dello scompartimento. Quel giorno aveva dovuto anticipare la sveglia: la corriera che l’avrebbe condotta a R. partiva solo alle quattro e cinque e non poteva rischiare di mancare la partenza. Anzi, quando giunse sui binari il treno stava già fischiando. Trafelata, percorse tuttavia con calma studiata il corridoio e si fermò davanti a quella che pareva una studentessa. Questa le sorrise gentile, appena la donna le si sedette accanto, e il sorriso si allargò cordiale quando la udì pronunciare le prime parole. Ma dopo pochi minuti, il sorriso si spense in una smorfia di sgomento: la signora continuava a bisbigliare segreti inconfessabili (o così le parvero) e mentre la ragazza si incupiva incredula, l’altra viaggiatrice sembrava rasserenarsi e quando il convoglio si arrestò nella stazione cittadina, solo allora, indossando il cappottino celeste, la donna le rivolse un mormorato saluto.

La studentessa afferrò la borsa dei libri e scese attonita dal treno. Ne notò l’intontito stupore un ferroviere, che le chiese premuroso se potesse esserle utile. La ragazza rispose che no, stava bene, soltanto aveva avuto un incontro davvero curioso, che l’aveva lasciata perplessa e turbata. “Una signora col cappotto celeste?” la interrogò ancora il ferroviere. “Sì, proprio così. La conosce?”.

L’uomo le spiegò allora che da qualche settimana, diversi pendolari dei piccoli comuni della cintura di M., raccontavano di questi incontri stranianti: una donna di mezz’età, apparentemente normale e dai modi educati, si sedeva accanto o di fronte a loro e improvvisamente si metteva a bisbigliare parole che rivelavano un’inaudita sofferenza. Poi, così come era venuta se ne andava, quasi inghiottita dalla città d’arrivo.

Chi fosse e cosa volesse, nessuno lo sapeva.

°°°

Era successo di notte.

Si era domandata, in seguito, se quella fosse stata una notte “buia e tempestosa” come nei racconti di Snoopy, picchiettati sulla macchina da scrivere posta in cima alla cuccia. In un certo senso anche lei era in una cuccia: un cumulo di plaid che sostituivano il calore di un abbraccio, in quelle lunghe notti dove il conforto di un sogno liberatorio o di un sonno ristoratore tardavano ad arrivare. Aveva preso l’abitudine di non sfidare neppure il grande letto a due piazze che un tempo ne accoglieva i giochi d’amore e le profonde dormite giovanili. Preferiva sfuggirne il carico di ricordi che l’avrebbe attesa, e accoccolarsi sulla poltrona del soggiorno, alla luce discreta di una lampada antica che rischiarava le pagine di libri che, ancora, la illudevano di vita.

“Buia e tempestosa” fu, dunque, quella notte? Forse, se usurate metafore potessero descrivere quello che da tempo era il suo stato d’animo: la luce della felicità si era poco a poco spenta tra tenebre di depressione, neppure attraversate dal sollievo di una generosa smemoratezza o di una conquistata acquiescenza.

Era sempre stata riservata. “Un’asociale” sosteneva chi ne aveva subìto i silenzi, “una timidona” replicava chi l’aveva conosciuta ragazza, “una frustrata” la liquidava chi l’aveva incontrata negli ultimi tempi. Fosse una o tutte queste definizioni, fatto sta che il percorso doloroso che via via l’aveva condotta alla solitudine, l’aveva progressivamente isolata, e – vuoi per diffidenza, vuoi per paura – aveva imparato a tenere ben serrati in sé i propri segreti, le proprie sconfitte.

Ma ultimamente i pensieri parevano premerla anche fisicamente, quasi avessero urgenza di uscire: lo stomaco le si serrava appena provava a sbocconcellare qualcosa, il respiro le veniva meno anche quando non aveva faticato. Doveva fare qualcosa, parlare con qualcuno, sfogare l’amarezza e i rimpianti, confessare gli errori. Ma con chi?

Un prete? Non credeva. Anzi, aveva trasformato l’acredine che da piccola aveva nutrito per un dio che le era sempre parso crudele ed ingiusto, in un’indifferenza rassegnata verso la fede.

Uno psicologo? Aveva provato, una volta, ma si era sentita una sorta di cavia sottoposta a domande provocatorie e prove capziose.

Un parente? Non ne aveva più.

Un amico? Non ne aveva mai avuti.

Un estraneo?

Un estraneo!

Ecco, quella fu l’idea, la tempesta, la luce ritrovata. Ciò che mai avrebbe rivelato a chi l’avesse da sempre conosciuta, poteva essere svelato senza timore a chi, non conoscendola, neppure poteva giudicarla.

E quale ambiente migliore, per una conversazione mai più ripresa, della carrozza di un treno? Studiò le linee e i percorsi, badò di non salire due volte sullo stesso convoglio, scelse sempre le prime partenze del mattino (e mai dalla propria città, per non rischiare incontri con conoscenti) per confondere lo scaturire impetuoso della propria angoscia nella nebbia di un lento risveglio.

Fu così che iniziò la sua confessione pendolare.

Fu così che, una volta conclusa, potè scendere, per l’ultima volta dal treno.

E dalla vita.

Aglaja

LE ECLISSI DI LUNA DI PENOMBRA NON DESTANO PARTICOLARE INTERESSE

“La terra, le stelle, i pianeti, la vita stessa si reggono su cicli. Il Sole sorge, attraversa il cielo da oriente a occidente e poi tramonta. La Luna attraversa fasi di 28 giorni, dalla Luna Nuova alla Luna Piena, per poi percorrere il cammino inverso. Come un meccanismo perfettamente regolato, tutto procede senza imprevisti, poi, improvvisamente, la Luna sembra sparire dal cielo: è l’eclisse”.

L’uomo, nel tepore uterino della sala, aveva smesso di ascoltare il conferenziere che, come un maestro elementare d’altri tempi, illustrava con voce pacata e suadente, accompagnata da gesti larghi e morbidi, il fenomeno celeste.

Un tempo, quando i nostri avi ancora non avevano gli strumenti per studiare tali accadimenti, la superstizione e l’ignoranza rendevano le persone schiave della paura, tanto che levavano accorate preghiere ai loro dei affinchè la Luna potesse riapparire a rischiarare la notte”.

Era entrato nel piccolo teatro, forse attratto più dai canapè in bella vista nel foyer lillipuziano, dove era offerto un piccolo rinfresco ai partecipanti, che dall’argomento della conferenza che vi si teneva: LE ECLISSI TRA SCIENZA E MITO. La giornata dicembrina ghiacciava le idee e sbiadiva i tratti, l’umidità sembrava aver intriso i capelli dell’uomo, radi fili nebbiosi, e il suo cappotto cammello, stazzonato come il viso. Accomodandosi in una delle ultime file della platea, lo aveva tuttavia ben ripiegato, appoggiandolo sul sedile accanto al suo. Si era passato poi il fazzoletto sulla fronte, come per sgombrarla da quell’umidore e dai pensieri confusi che sempre più spesso la attraversavano. Aveva bisogno di un po’ di pace. Aveva lasciato scivolare il bacino in avanti e poggiato la nuca sul bordo dello schienale, chiudendo gli occhi con sollievo, consolato dalla carezza inaspettata del velluto. In bocca avvertiva ancora il gusto sapido del salmone che aveva assaporato nel foyer: se ne era lasciato permeare, come fosse essenziale non perderlo.

“Astronomi e astrologi, filosofi e religiosi, scienziati e ciarlatani, per secoli hanno studiato gli effetti delle eclissi sotto ogni punto di vista, giungendo – sia pure per vie diverse e contrastanti – alla conclusione che esse hanno un effetto significativo, oltre che sui fenomeni naturali – quali, ad esempio, le maree – anche sulla nostra vita”.

Era uscito dal suo studio prima del solito, congedando innanzi tempo il cliente, proterviamente irritato, che gli esponeva insoddisfazione per il progetto da lui studiato per riattare il suo open space. “Perchè vede, architetto, se qui lei mi sistema una paratia di vetrocemento, anzichè sfruttare, estremizzandolo, lo spazio per la zona giorno, lei me lo riduce con un effetto gabbietta insopportabile!”. L’effetto gabbietta, in realtà, pareva attanagliare l’architetto ben oltre l’infelice open space del cliente. Si sentiva fisicamente soffocare e il bisogno di aria fresca era una necessità vitale e non solo metaforica.Aveva chiuso la porta del suo studio con la consueta perizia, facendo scattare rumorosamente le due serrature che ne garantivano l’impenetrabilità. Poi, però, era sceso disarticolatamente per le scale, senza attendere l’arrivo del sempre affollato ascensore, rendendo il suo respiro ancora più affannoso, sottolineato da un gorgoglio appena avvertibile, segnale sonoro di un buio temuto. Una volta in strada voleva riprendersi quell’aria che sentiva mancargli, ma quel clima così umido, quel vento così freddo gli avevano ancor più compresso il fiato, come una morsa ai polmoni che ne impedisse la necessaria dilatazione.

“Il termine eclisse deriva dal greco ekleipsis, “venire meno”, riferendosi all’impressione che il corpo celeste paia diminuire di estensione man mano che il fenomeno procede”.

Da quando era rimasto solo, spesso si era ritrovato come smarrito. Più volte gli era capitato di iniziare un discorso e di perdere poi il filo del ragionamento, di disegnare un ambiente e di inserirci elementi incongrui, come se, sbadatamente, avesse varcato la porta sbagliata nella casa che la sua mente stava percorrendo e solo in un secondo tempo comprendesse di non poter usare il forno in salotto. E poi quella stanchezza, quella svogliatezza che gli mostrava, crudelmente, l’inanità di ogni suo gesto, di ogni suo incontro, di ogni sua abitudine.. “Insopportabile” era la parola che risuonava nei suoi pensieri più frequentemente “Insopportabile, insopportabile” si ripeteva ogni mattina, quando un viso sconosciuto lo fissava incredulo dallo specchio.

“Evidenti sono i cambiamenti che spesso accompagnano le eclissi: le relazioni tra persone si definiscono, nuove porte si aprono, altre si chiudono per sempre. Se pure non si abbia percezione di una volontà irresistibile di mutamento esistenziale, se pure non si abbia consapevolezza di effettuare un cambiamento, i cambi arrivano da soli, esistono, per così dire, già in nuce”.

Aveva provato a confidarsi con qualcuno, il medico col quale condivideva lo studio, ad esempio. Ma questi aveva minimizzato il suo malessere, rassicurandolo sul suo stato di salute, dopo una visita scrupolosa solo nei gesti e i risultati di alcuni esami prescritti, annunciandogli che non aveva nulla se non, forse, un accumulo di stress. Si era persino concesso qualche confidenza con il barista del caffè sotto casa, contravvenendo a quella riservatezza ben nota a chi lo conosceva da anni. Gli erano state offerte avvilite e avvilenti banalità che lo avevano più sconfortato che consolato. Del resto che aveva raccontato di sè? Nulla, se non balbettanti e insensati lampi di situazioni e sensazioni estremamente significative per lui, prive di interesse e logica per gli altri. Una sera, lo ricordava ancora con vergogna, aveva pianto davanti al commercialista del terzo piano, non per il 730, di questo era certo, ma per qualcosa che adesso gli sfuggiva, qualcosa che in quel momento aveva dovuto rivelare al commercialista per l’ottimo motivo che proprio in quell’istante non aveva di fronte altri che lui. Eppure, anche davanti alle lacrime che impudenti e irrefrenabili scaturivano dagli occhi appannati del suo cliente, il commercialista aveva assunto lo stesso atteggiamento del medico e del barista, un imbarazzo infastidito, appena mimetizzato da un atteggiamento falsamente comprensivo e sdrammatizzante.

“Le eclissi di Luna di penombra non destano particolare interesse in quanto, durante questi eventi, è difficile stimare la differenza di luminosità subita dalla superficie illuminata del nostro satellite quando questa viene attraversata dal cono di penombra della Terra”.

Quando la conferenza ebbe termine, uno scroscio di applausi salutò il congedo del relatore. Il pubblico, poco a poco, vociando allegramente tra commenti e chiacchiere, saluti e battute, abbandonava la sala, accalcandosi all’uscita, in cerca di un cappello lasciato al guardaroba, di un cappotto, o di un ultimo canapè al salmone. L’uomo dal cappotto cammello, invece, non lo indossò. Rimase immobile, con il capo reclinato sullo schienale, gli occhi chiusi.Nessuno se ne accorse, se non la ragazza che, più tardi, si sarebbe occupata delle pulizie del teatro.

Aglaja

LA PORTA

Passava spesso in quel quartiere.

Non che dovesse farlo perché di strada per il lavoro o perché vi abitassero amici o conoscenti. Non vi era alcun bisogno di passare di lì. Neppure, che so, per un particolare scorcio panoramico, o per qualche artistico angolo esteticamente appagante. Non vi erano attrattive di alcun tipo, nemmeno negozi dalle vetrine accattivanti o dai prezzi concorrenziali. Insomma, un qualsiasi razionale e rassicurante motivo per deviare dal solito percorso e spingerlo ad andare completamente fuori dalle strade più familiari non c’era.

E perché poi avrebbe dovuto esserci: almeno la libertà di camminare e perdersi nelle vie della sua città gli era pur concessa, sia pure con i limiti da lui impietosamente imposti. A volte era convinto di essere il carceriere di se stesso, ma era sicuramente più comodo attribuire ad altri, o meglio alle sue responsabilità nei confronti degli altri, la necessità di trattenersi in un mondo penosamente sicuro, dove la rassicurazione reciproca era la farsa necessaria per sopravvivere.

D’inverno, quando le ombre violacee della sera accarezzavano prima quel dedalo di strade in cui trovava rifugio, attraversava a lunghi passi i maleodoranti vicoli e, nervoso, si spingeva dove muri di pietra erano ancora diroccati da lontani bombardamenti, dove l’ortica spuntava da ciottoli antichi, dove voci parlavano con accenti sconosciuti e, improvvisamente, si alzavano in incomprensibili ‘crescendo’ sonori, del tutto indecifrabili nella loro valenza emotiva.

Eppure non aveva paura. E di cosa, del resto? Di essere aggredito, derubato, importunato?

Impossibile.

Si sentiva sicuro nella propria invisibilità, nel suo essere gregario, che, ne era certo, erano l’arma migliore per sfuggire a domande indiscrete, a ruoli che sentiva insopportabili per la propria superba inadeguatezza, a richieste di un suo coinvolgimento – non solo cerebrale – che gli era ormai impossibile.

Impossibile.

Ancora quella parola. La chiave della sua vita.

Impossibile.

La definizione perfetta per le sue giornate insensate, per i suoi pensieri, per quei desideri che aveva imparato a non ascoltare più perché stupidi, perché impossibili.

E così camminava, naso all’aria, aggrappandosi furtivo alle vite altrui che pulsavano dalle finestre illuminate. Immaginava, da naufrago quale si sentiva, di seguire le stelle anche quando il cielo era coperto da nubi pesanti, che riflettevano le luci artificiali della città. Nel suo delirio erano state le stelle, la prima volta, a condurlo proprio lì, da quella che, da mesi, era diventata la sua meta quotidiana: una porta.

Una porta grande, che forse avrebbe potuto essere definita un portone, anche se non ne aveva il dignitoso aspetto. Una porta ad una sola anta, un tempo verde scuro, come si comprendeva da vecchie tracce di vernice, sopravvissute allo scrostamento meteo-cronologico. Non vi erano insegne, né campanelli, né etichette, nulla che potesse dare un’indicazione su ciò cui la porta un tempo si apriva. Il muro dove si trovava era, una volta, la facciata di una casa, una di quelle spazzate via e mai più ricostruite, una parte di quelle macerie vergognose lasciate a monumento dell’incuria e dello smemorato trascorrere degli anni. I resti di un marciapiede sfondato si mescolavano alla polvere di un terreno non asfaltato, dove rari passanti lasciavano le impronte di un frettoloso andare.

La prima volta che vi si era trovato davanti, si era fermato bruscamente, sbattendo le palpebre, come ridestandosi dal consueto torpore del suo divagare, quasi avesse riconosciuto in quella porta la destinazione finale di un’inconsapevole rotta.

Si appoggiava a quell’anta scrostata e, come un passante colto da improvvisa stanchezza, chiudeva gli occhi, lasciava le spalle incurvarsi, abbandonandosi a quella fantasia repressa che ora gli scintillava immagini improbabili, eppure per lui plausibilissime.

Cosa c’era dietro quella porta? Una cantina? Chissà quali resti di quale passato di quali persone conservava, avvolte nella muffa e nelle ragnatele.. Certamente erano gli occhi rossi e lucenti dei topi che li custodivano divorandoli, ad assistere al loro provocato ed ammonente disfacimento.

E se fosse stato l’ingresso di uno scagno? Un ufficio che forse si trovava in fondo ad alcuni gradini d’ardesia, consumati dai passi strascinati di commessi e clienti, che lì trattavano affari per un attimo importantissimi, fondamentali nel nulla che sarebbero divenuti, nella polvere che avrebbe ricoperto incartamenti ingialliti, macchiati di umidità e postuma insensatezza.

Magari, invece, dietro la porta si trovavano ancora il bancone di legno, dal piano di marmo screziato, di una vecchia osteria, scaffali vuoti delle bottiglie e dei fiaschi dove finivano sogni e salari di poco valore, amarezze e delusioni trattenute sotto palpebre pesanti, speranze strette in mani ruvide e callose, tenere di una carezza mai data né ricevuta.

O, forse, quella porta si apriva su un cortile grande, senza aiuole o pretenziosi gazebo, solo un cortile un po’ polveroso, con vie di passaggio a ingressi interni, a scale di ferro arrugginito che portavano a disponibili entrate di case di ringhiera, i cui odori e voci rassicuranti richiamavano i monelli che giuocavano dabbasso.

Tutto questo, comunque, aveva poca importanza.

Il naufrago che si appoggiava a quella porta vedendovi oltre, sentiva adesso – in quegli stessi istanti nei quali sostava inquieto, passando le dita su quel legno, incurante delle schegge che lo ferivano – sentiva, dunque, che quello sarebbe stato il passaggio definitivo, la via di fuga imprevista che lo aveva atteso, che pazientemente aveva aspettato la sua consapevolezza, il ritrovamento dovuto di se stesso, la fine dello smarrimento che lo aveva portato a fingere di essere vivo.

Aveva avuto bisogno di molti pomeriggi, di innumerevoli divagazioni dal quotidiano percorso, nonché dalla consueta recita ad uso altrui, ma ora sapeva che ciò che quella sera stava per fare doveva accadere, per forza, per necessità.

Quella sera non si sarebbe limitato ad appoggiarsi alla porta, ad accarezzarla.

Quella sera l’avrebbe violata, forzata, spalancata, certo fosse questo il gesto necessario, il lasciapassare per capire, per trovare la soluzione, per vedere ancora la luce.

Non sapeva cosa avrebbe trovato: mentre velocemente si approssimava alla meta, passava da uno stato quasi febbrile, dove le domande si affastellavano in scene previste e temute, ad uno dove la speranza di un se stesso finalmente appagato e libero, lo colmava di una gioia dolorosa, persino devastante nella sua intensità.

Eccola, la porta.

Sapeva che sarebbe bastata una spinta un po’ energica per aprirla. Già le sere precedenti, mentre vi si appoggiava, l’aveva sentita cedere sotto il suo peso. Poggiò entrambe le palme delle mani e spinse, spinse, spinse ancora, con la forza della disperazione e delle lacrime che aveva per troppi anni trattenuto.

La porta cedette e cigolò stridula sui cardini arrugginiti.

Gli si svelò piano, pietosa, aprendosi sul nulla che aveva protetto per anni.

Nulla.

Non c’era nulla dietro, se non altre macerie. Come la vita, da cui non poteva fuggire.

Aglaja                                                                                                                                                 

IL CLOWN NEGHITTOSO

Dicevano che il suo era un dono.

Aggrottava in un certo modo le sopracciglia (soffriva spesso di emicranie), lanciava uno sguardo dal sotto in su (aveva una leggera miopia), storceva un poco le labbra (magari per esprimere disappunto) e.. ah ah! Tutti a ridere. “Un clown nato, ma come fa? E’ troppo divertente!”

Fin da piccolo era sempre stato fonte di ilarità per tutti, anche quando non aveva nessuna voglia di far ridere.

Ora, fosse stato figlio, che so, di un ragioniere e di una casalinga, di un imbianchino e di una segretaria, forse avrebbe anche potuto prendere la cosa di buon grado, come un attestato di simpatia. Ma Callisto (sì, Callisto, non Mario o Giovanni: Callisto, come il nonno paterno, che quando si presentava giù tutti a ridere, ah ah!) era figlio di Franz Domatore e Katina Trapezista (Franco Piede e Caterina Picchi, ma al Circo Fanfara i cognomi venivano sempre sostituiti dall’arte esercitata). Callisto Piede (ah ah!) amava l’arte della madre, più che quella del padre. Da piccolo stava ore col naso in su ad osservare la bruna Katina volteggiare con grazia sul trapezio. Era sicuro che sarebbe volata via, uno di quei giorni, tanto era lieve ed eterea, e immaginava se stesso librarsi con lei. Si sentiva altrettanto leggero, agile ed elegante, come quella bella mamma nel suo costumino bianco tutto luccicante di lustrini, col mantello dorato ampio e avvolgente, di cui si liberava con un gesto gentile ed altero a un tempo, prima di iniziare il numero. Callisto pensava che la madre fosse un angelo. Peccato avesse sposato il diavolo in persona. Franz era un domatore di tigri e riteneva di dover domare il mondo intero. Come alzava la frusta sulle belve, così alzava la voce e le mani sui familiari.

Un giorno, come Callisto aveva previsto, la bella Katina prese davvero il volo, ma non verso le stelle trapunte sul tendone del circo, bensì col muscoloso partner del numero al trapezio. Ora Franz non alzava più né la voce né le mani: preferiva alzare il gomito e, una sera che lo aveva alzato un po’ troppo, non riuscì invece ad alzare la frusta al momento giusto e…

Callisto si ritrovò così da solo, adottato da tutta la gente del circo, che lo amava per quel suo faccino così buffo. La donna cannone, in particolare, lo amava di un amore materno e, stringendolo al suo enorme petto gli diceva sempre: “Callisto, solo il vederti mi mette di buon umore!”. Eppure Callisto si sentiva di indole malinconica e pensava di aver già sofferto abbastanza per avere così pochi anni.

Una sera, si trovò ad assistere allo spettacolo al bordo della pista. Era ormai un ragazzino e non gli bastavano più i lavoretti che svolgeva come tuttofare (“Callisto, striglia i cavalli!” “Callisto? Hai rinfrescato il mio costume?” “Callisto, porta da mangiare agli elefanti” “Presto, Callisto: pulisci la pista!”) Le luci splendevano, la musica era allegra e forte, i clown saltavano e facevano smorfie e capriole, ma Callisto si sentiva il cuore scoppiare e più intensamente avvertiva il peso della sua solitudine, l’ansia per il suo futuro. Al numero del trapezio non resistette più e scoppiò in irrefrenabili singhiozzi. Alcuni spettatori che si trovavano vicino a lui si diedero di gomito ed esclamarono: “Ehi, è rimasto un pagliaccio in pista: guardate che buffo, che smorfie che fa! Ah ah!” Al sentire queste parole, Callisto si disperò ancora di più, ebbe una crisi di nervi, cominciò a sfasciare tutto quello che gli capitava davanti. Ma più dava in escandescenze, più il pubblico rideva, trascinato in un’irrefrenabile ilarità. I trapezisti, disturbati dal fragore delle risate, interruppero il numero. L’orchestrina cominciò a suonare una marcetta ridicola e ogni calcio dato da Callisto a qualcosa veniva sottolineato da un colpo di grancassa. L’occhio di bue inseguiva per la pista quel buffo ragazzino dai movimenti disarticolati, con un viso di gomma dalla mimica esilarante. Entrarono in scena tutti i clown che circondarono Callisto, trascinandolo nelle loro gag insensate, cacciandogli un minuscolo cappellino in testa e inondandolo di acqua e farina. Un successone! Gli spalti venivano giù dagli applausi e dalle risate: era nata una stella. Callisto fu giuoco forza arruolato tra i pagliacci e andò incontro al suo destino passivamente.

Oggi il suo numero è quello del clown serio: vagola in pista osservando le spinte e le cadute degli altri, lascia che ciò che pensa gli affiori sul viso e… ah ah! Scatta la risata irrefrenabile degli spettatori. Poi finge di adirarsi, di voler punire gli stolti buffoni, ma viene travolto nelle loro risse comiche ed esagerate. E’ ormai il numero di punta del Circo Fanfara: non c’è giocoliere che tenga, neppure l’elefante che balla il tip tap ha lo stesso successo. E’ una magia, un che di misterioso che rende Callisto inimitabile. Da anni ormai va avanti così, senza cambiare una virgola al proprio copione, senza desiderio alcuno di rinnovarsi, di reinventarsi.

Così, Callisto si lascia negligentemente sopraffare dalla vita, svogliato, accidioso, indolente, incapace di riprendere in mano il filo di una volontà perduta, schiacciata dalle risate altrui.

Talora, fradicio per le secchiate d’acqua ricevute, si siede ancora al bordo della pista e guarda su, verso il trapezio. L’osserva oscillare. E vede se stesso lanciarsi leggero, volteggiando in un silenzio sospeso e infinito. Si immagina spiccare un ultimo volo, il più ardito, quello che porta più in alto. E allora sì.. ah ah!

 Aglaja

TROMPE L’OEIL  – racconto insensato in cinque quadri

1) Un tempo era stato un villino di qualche pretesa.

Tre piani di intonaco rosa, mansarda, verdi persiane alla genovese e un giardino (con alberi da frutto, tra cui spiccavano i colori degli aranci e limoni, qualche ulivo argentato, gazebo e panche in ferro battuto) che si affacciava – riparato da una montaliana muraglia con cocci aguzzi di bottiglia – nel budello principale dell’amena località balneare ligure. Sopra la porta d’ingresso, visibile dall’imponente cancello che ne blindava l’accesso, c’era una grande finestra rotonda, con una grata da cui spuntava un geranio screziato, bellissimo e profumato, che scendeva a grappolo a sfiorare l’entrata.

Era stata l’abitazione e lo studio del medico condotto del paese, ambito scapolo che lì aveva sempre vissuto con la sua mamma, fin quando un cumenda lumbard lo aveva travolto, con il Ferrarino da rimorchio, sfrecciando sull’Aurelia all’ingresso del paese, in un’afosa sera di luglio.

L’anziana donna era così rimasta sola e inebetita, inutile a sé e agli altri. I figli delle sorelle si erano ben presto dimenticati di quella vecchia un po’ svanita, che, come spesso succede, aveva trovato una ragione di vita nel raccogliere in casa e nel giardino gatti randagi e malaticci, di cui si prendeva materna cura. La trovarono in un pomeriggio di luglio (era appena trascorso il quarto anniversario della scomparsa del figlio), diversi giorni dopo la sua morte, vegliata da una trentina di gatti silenziosi, insensibili al tanfo che riempiva le stanze, in cui da tempo non filtrava più luce né aria.

2) A lungo il villino era stato lasciato andare in un abbandono litigioso da eredi incuranti di memorie avite e avidi di contanti memorabili.

Il giardino era stato invaso dai rovi, le persiane verdi si erano scardinate e dell’intonaco rosa erano rimaste tracce imbarazzanti, come quelle di un improbabile fard sulla carnagione livida di una vecchia.

Solo il geranio screziato aveva resistito, incrollabile baluardo, al passare del tempo e incredibilmente rifioriva ogni anno, testardo padrone di casa.

Poi le questioni testamentarie si erano risolte e l’edificio – con buona pace dei ricordi e delle ombre di chi vi aveva vissuto – era stato venduto per essere trasformato in un piccolo hotel, uno dei tanti che si affollavano di foresti nelle calde estati rivierasche.

I lavori di ristrutturazione procedevano spediti: all’interno nulla fu lasciato uguale e i saloni e i salotti, e lo studio e la sala d’attesa, e le camere e la biblioteca, divennero stanzette tutte uguali, dotate di ogni confort (tv, telefono, aria condizionata, bagno con jacuzzi).

Il giardino venne risistemato da un giardiniere di grido, che sostituì gli alberi da frutto con altri più decorativi ed esotici.

I gatti erano scomparsi all’apparire delle ruspe e di tutta quella folla rumorosa di architetti, muratori, operai, giardinieri, e anche il geranio screziato si era avvizzito, vinto dai calcinacci prima e da mani ruvide poi, che lo avevano gettato via.

Ci volle un anno e mezzo per terminare i lavori, ma alla fine il risultato fu eccellente: un gioiellino di albergo, nel cuore del paese, ben rifinito, di nuovo splendente in un rinnovato intonaco rosa.

Un’insegna ne annunciava il nome: “Il Geranio Screziato”. Chi aveva rifatto la facciata, si era infatti divertito a disegnare un trompe l’oeil che riproduceva, sopra l’ingresso, l’antica finestra tonda (ora eliminata) con la grata da cui trionfava il colore e l’abbondante fioritura del geranio di un tempo.

3) La donna trascorreva da sempre le ferie in quella cittadina.

Ogni estate, da quando i suoi figli erano piccolissimi, venivano parcheggiati, con sua disperazione, per tre mesi nella casa della suocera, dove un’orda parentale la travolgeva con implacabile cordialità.

Ora però i figli erano diventati grandi, i parenti si erano ridotti di numero (pace all’anima loro), suo marito continuava a parcheggiarla per tre mesi, ma lei ormai gliene era grata.

Aveva tempo, adesso, tanto tempo. Finita l’epoca in cui badava all’ora del bagno, alla merenda, ai compiti delle vacanze, alla cena per troppe persone, ai pettegolezzi del dopo cena subiti in silenzio, aveva ora il dono prezioso di ore che poteva trascorrere con se stessa, attenta solo al fruscio di pensieri che le parevano polverosi come la sua pelle e i suoi capelli.

Stava ore a guardare il mare. Non più nello stabilimento dove per anni aveva portato, con le cognate, figli e nipoti, ma dalla scogliera un po’ fuori paese, dove trovava solo qualche coppietta infrattata che la guardava con lo stupore divertito dell’incomprensione.

Le pareva che il mare avesse capito tutto e potesse restituirle qualche illusione, qualche ricordo, un po’ di bellezza, i giorni sprecati nell’annullarsi.

Si dimenticava persino di mangiare, lei che ne aveva sempre preparato, e in abbondanza, per tutti.

Si era fatta più magra, più sbiadita, nonostante il sole da cui si lasciava bruciare senza particolari riguardi, sempre più trasparente, tanto che nessuno pareva ricordarsi di lei, né il marito, che ormai neppure nei fine settimana la raggiungeva, né i figli, che trascorrevano le vacanze in località più alla moda con le loro compagnie rumorose, né le cognate che avevano oramai più acciacchi di lei a cui pensare.

Nel tardo pomeriggio imboccava il budello del paese, in mezzo alla gioventù caciarona che lo riempiva di colori vivaci, pelle abbronzata e odore di creme solari, e faceva una piccola spesa per la cena, guardandosi intorno, ancora curiosa di cose e persone.

Aveva seguito la storia del villino con commossa partecipazione per le vicende dei suoi ex proprietari, avvilita nel vederne il degrado, sconfortata nell’assisterne ai cambiamenti, perplessa nel constatarne il nuovo aspetto. In particolare, si era indignata per la sorte dei gatti, cui nessuno si era interessato, e per la fine ingloriosa del geranio screziato, per quanto resuscitato virtualmente dal trompe l’oeil.

Vi passava davanti ogni sera, e ogni sera alzava lo sguardo verso quel piccolo affresco, come a cercare una presenza amica che non c’era più.

4) Una sera, però, poco prima di giungere all’altezza del villino, la donna fu colpita da un intenso profumo.

Si disse che era normale: a quella straordinaria fioritura screziata non poteva che corrispondere un profumo così penetrante.  Solo dopo qualche istante si rese conto dell’assurdità della cosa: come poteva un geranio dipinto emanare alcunché? Era sicuramente l’impressione di un ricordo, forse di una sera come questa, quando il profumo del geranio era intenso come quello della sua pelle.

Sorrise di se stessa e della propria memoria olfattiva.

Qualche giorno dopo, alzando gli occhi verso il trompe d’oeil, notò una macchia nera piuttosto grossa. Guardando meglio, la macchia le parve simile al musino di un gatto. Osservando con più attenzione, si convinse che dalla griglia dipinta spuntava proprio un micino che si sporgeva temerario oltre i fiori del geranio.

La donna si infilò nella bottega del salumaio di fronte, acquistò il solito etto di stracchino e il mezzo di prosciutto cotto. Prese anche un cartone di latte a lunga conservazione e un pacchetto di cracker. Cercava di indugiare il più possibile nel negozietto, sostenendo persino, cosa inconsueta per lei, una stupida conversazione sui giovani che non erano più come quelli di un tempo e sui vestiti delle ragazze che non lasciavano più nulla all’immaginazione. Tutto pur di frapporre tempo tra l’uscita dalla bottega e l’inevitabile ritorno dello sguardo al trompe l’oeil.  Scostate le unte strisce di plastica colorata, tornò in strada e alzò gli occhi. Il gatto non c’era più. Ma alcuni petali screziati giacevano davanti all’entrata dell’hotel.

5) Per qualche sera evitò di passare all’interno del paese, preferendo il lungomare e una spesa più consistente al supermercato affollato.

Poi non resistette e decise di ripercorrere l’usata via.

Il profumo era sempre quello. Dalla grata non spuntava nessun musino, in compenso la finestra tonda appariva illuminata.

Affrettò il passo verso casa.

Il giorno seguente trascorse ore a nuotare, con un’energia che non si riconosceva, che la spingeva pericolosamente al largo, incurante delle onde alte e del richiamo di qualche ragazzo un po’ preoccupato. Tornata a riva, si lasciò asciugare da un pallido sole, che ben presto fu coperto da grosse nuvole nere che preannunciavano un bel temporale estivo. Mentre si rivestiva, cominciarono a scendere i primi goccioloni. Aveva freddo, nel suo vestito leggero, ma indugiò nel suo cammino, che ancora una volta la riportò davanti al villino.

Il vento che si era levato scompigliava i fiori del geranio e petali screziati volteggiavano nell’aria, volando fino a lei. Il gattino la osservava curioso, stupito di quella signora che rimaneva a bagnarsi con lo sguardo rivolto verso di lui. Una mano bianca, fine, stropicciata dagli anni, lo accarezzava leggera tra le orecchie, come per tranquillizzarlo, come per consolarsi.

Intanto, la donna, per strada, rimaneva a bagnarsi, senza farsi domande, aggrappata al cancello.

Fu lì che la trovarono, il giorno dopo. Pareva sorridere.

Aglaja

DIALOGO DI UN DIZIONARIO ESAUSTIVO E DI UNA DONNA ESAUSTA

Una donna dallo sguardo velato e dai gesti stanchi, dopo un cammino a ritroso, fatto fingendo di guardare avanti, si scopre in un’antica stanza della sua giovinezza, o meglio, in un corridoio dal pavimento nero e lucido, dove si affacciano le ante scorrevoli di un armadio a muro. La donna, come avesse ancora la statura di una bambina, alza il capo piegando leggermente il collo, osservando il disegno sottile di un intarsio d’ebano, che segue il profilo dell’anta di legno chiaro.

Le dita paiono accennare all’impulso di seguirne il percorso senza soluzione, ma poi si rinserrano sull’anello di metallo che separa gli sportelli appena sovrapposti, facendone scorrere uno sul suo binario, che si inceppa appena nel suo ormai desueto percorso. L’anta scompare, inghiottita dal muro con la tappezzeria scolorita, e una scaffalatura zeppa di libri, accatastati senza razionale disposizione, si offre allo sguardo – che si rammenta goloso – della donna.

Ella cerca istintivamente uno sgabello amico, poi si rende conto di non averne più bisogno e tende un braccio – ah, con che fatica! – al ripiano più alto: sa, tastando, dove cercare.

Ed ecco che il tesoro colma il suo palmo e, con un ulteriore sforzo, riesce ad estrarre un tomo pesante dalla pila di volumi che lo tratteneva.

DIZIONARIO (spazientito, ma non sorpreso): Finalmente!

DONNA (quieta): Sì.

DI (sicuro): Hai ancora bisogno di me.

DO (smarrita): Non ho mai smesso di averne. Solo non lo ricordavo.

DI (con amarezza): Non mi ha più sfogliato nessuno, da anni.

DO (con vergogna): E’ capitato anche a me.

DI (sarcastico): Mi sorprendi! Ti appropri di uno specifico campo semantico traslandolo in una banale metafora. Il tuo linguaggio figurato, un tempo, era meno scontato.

DO (umile): Forse. Forse è per questo che sono qui. (si interrompe. Sospira. Riprende scivolando nel melò) Cercavo parole che non ho più trovato, significati che ho dimenticato.

DI (tronfio): Ah, allora ti rivolgi al meglio, come sai: posso offrirti la più completa ricognizione del patrimonio lessicale della lingua italiana. Nel mio lemmario troverai la più esaustiva, analitica, minuziosa dissezione delle parole e del loro significato.

DO (ansiosa): Ho bisogno di sapere…

DI (premuroso): L’area di un lemma?

DO (esitante): No, piuttosto…

DI (propositivo): L’area semantica!

DO (irresoluta): Forse… non solo…

DI (costruttivo): L’etimologia, la datazione…

DO (dubbiosa): Ecco, però…

DI (espositivo): Sillabazione. Pronuncia.

DO (insoddisfatta): No, non è questo…

DI (perplesso): Accezioni? Locuzioni?

DO (incerta ): No, non direi…

DI (incalzante): Morfologia? Ortografia?

DO (seccata): Non ne ho bisogno!

DI (infervorato): Sinonimi! Sottolemmi!

DO (spazientita): Aspetta un attimo…

DI (esasperato): Citazioni! Esempi! (i fogli si girano vorticosamente)

DO (grida): Mi vuoi ascoltare?

DI: (tace. Se avesse un sopracciglio lo inarcherebbe. In mancanza, piega l’angolo di una pagina)

DO (calma): E’ molto più semplice. Voglio da te la definizione di “vita”.

DI (sprezzante): Mi consulti dopo tanti anni e chiedi la definizione di “vita”. Non di “ritrometrico”. Non di “loppone”. Non di “gavocciolo” e nemmeno di “Crossopterigi” o di “aglaonema”. “Vita”, mi chiedi, la definizione di “vita”. Pfui.

DO (paziente): Per favore. Solo la definizione. Niente esempi o citazioni.

DI (pedissequamente):

vìta: vì-ta

  1. f.

-stato naturale di attività degli esseri organici, vegetali, animali, in quanto nascono, si sviluppano, si conservano e si riproducono in altri organismi simili

-durata, spazio di tempo compreso dalla nascita alla morte

-modo del vivere umano

-vivacità, energia

-animazione, fervore di attività

-capacità vitale

-durata di un fenomeno

-persona, essere umano

-quanto costituisce la causa per cui qualcuno o qualcosa vive

-biografia, narrazione delle vicende, degli affetti, ecc. che si riferiscono ad un uomo

-in anatomia, tutta la parte del corpo umano sopra ai fianchi fino alle spalle; est. parte del vestito sopra i fianchi.

(tace. Riprende lievemente annoiato): Ti basta?

Nessuna risposta.

La donna esausta si è dissolta all’istante, non rientrando in nessuna delle definizioni.

Aglaja

PAROLE IN MASCHERA

Cominciò a ricevere quegli strani biglietti in un giorno di pioggia.

Stava rientrando a casa, dopo un pomeriggio trascorso in biblioteca a fare ricerche. Le strade erano lucide di quel piovasco che par sporcare cose e persone, più che pulire l’aria. Era stanco, la vista appannata per lo sforzo di leggere quelle righe sbiadite, quelle lettere raggrinzite vergate tanti secoli prima. Era stanco, dicevo, ma anche contento: gli piaceva quel lavoro oscuro, quelle pagine da accarezzare, quelle parole da interpretare, quei testi da ricostruire..

“Ehi tu, imbecille! Guarda dove vai invece di stare col naso all’aria” si sentì apostrofare improvvisamente. In effetti, col naso all’aria non stava, ma l’ombrello nero con cui si riparava gli aveva impedito di accorgersi di un omone che veniva dalla parte opposta alla sua e con cui si era scontrato. L’omone lo spintonò bruscamente, facendolo vacillare; per non perdere l’equilibrio, si appoggiò a un cassonetto dell’immondizia che stava al bordo della strada, e fu in quel momento che (non seppe mai in che maniera) si ritrovò in mano il primo bigliettino: Spieghi incognite muffe”, vi lesse. “Ma che è? Che significa?” si chiese sbalordito, domandandosi se, per caso, fosse stato l’omone a mettergli tra le dita quel pezzo di carta o se fosse stato appoggiato al cassonetto. Gli balenò la folle idea che fosse effettivamente rivolto a lui e che si riferisse al suo lavoro. Poi si rese conto dell’assurdità della cosa, sorrise e si sbarazzò, appallottolandolo, del biglietto, che finì a galleggiare malinconicamente in una pozzanghera.

Il secondo biglietto coincise con un lavoro davvero interessante che stava completando in quei giorni.

Aveva ritrovato un manoscritto molto raro, in cui un monaco viaggiatore descriveva con dovizia di particolari la vita pubblica e privata dei Mandarini cinesi. L’interpretazione critica e la ricostruzione filologica lo stavano appassionando come non mai.

Chissà se avrebbe trovato un editore disposto a pubblicare il suo studio…

Quella sera, tanto per rimanere in tema, decise di cenare a un ristorantino cinese. Non aveva voglia di tornare a casa: nessuno lo aspettava e il solito piatto pronto da microonde non lo allettava.

L’atmosfera del locale, in verità, era un po’ squallida: finto ambiente orientale, finte stampe alle pareti, finti sorrisi della cameriera. Ordinò le solite cose: involtini primavera, riso alla cantonese, pollo alle mandorle, dolcetti della fortuna.

Gli involtini arrivarono abbastanza velocemente. Li tagliò in più pezzi per farli raffreddare e fu lì che trovò il bigliettino: era avvoltolato con cura e, fortunatamente, la salsa di soia non lo aveva macchiato. Incuriosito, lo prese con due dita e lesse Fife pechinesi? gong muti…”Con un cenno chiamò la cameriera: “Scusi” si informò gentilmente “Da quando mettete i bigliettini della fortuna negli involtini invece che nei biscotti?”. “Velamente negli involtini non mettiamo nessun biglietto, signole”, rispose sorpresa la ragazza. “E questo cos’è?”, chiese un po’ seccato lo studioso. “Non saplei ploplio, davvelo!”, disse la giovane stringendosi nelle spalle. “Non vollà chiamale l’igiene, velo?”, si allarmò poi. “No, no, niente igiene”, la rassicurò l’uomo, che, però, chiese il conto e se ne andò, un po’ turbato.

Con la notizia che a un convegno di studi si richiedeva un suo intervento proprio sul tema di quel famoso manoscritto del monaco viaggiatore, arrivò il terzo biglietto.

Era felice come un bambino. Non è che avesse spesso motivo di rallegrarsi: dopo tutto, le sue giornate si svolgevano sempre tra quattro mura, fossero queste di casa o di qualche biblioteca. Eppure si sentiva soddisfatto, contento di quel suo muoversi immobile nel tempo.

Volle concedersi una passeggiata nel parco: era tanto che non stava un po’ all’aperto e, anche se faceva un po’ freddino, l’aria era tersa e limpida e il sole gli avrebbe scaldato le ossa. Si fermò a un chiosco. Aveva voglia di un bel gelato alla crema, voluminoso e morbido sulla fragile cialda. I piaceri della vita.. Sorrise a se stesso. Chiese all’uomo del chiosco un cono alla vaniglia, fece per pagare, quando gli scivolarono gli spiccioli dalle mani. Si chinò a raccoglierli, ma, proprio sopra la sua scarpa sinistra era posato un pezzo di carta. Non lo guardò, lo mise in tasca, pagò, si allontanò leccando pensoso il gelato, lo terminò continuando a passeggiare, si nettò le labbra e, finalmente, si sedette su una panchina.

Qui trasse dalla tasca il biglietto, lo cincischiò tra le dita, quasi soppesandolo, quindi si decise ad aprirlo: “Minchione, festeggi? Pfui!. Lo ripiegò con cura e rimise in tasca. Restò seduto ancora per un pezzo, tamburellando con le dita sulla panchina, finchè l’aria si fece troppo frizzante e si decise ad andarsene.

Era un uomo solitario. In fondo non aveva mai imparato a rapportarsi serenamente con gli altri. Quando doveva agire, chiedere, interpellare, fare.. insomma, ogniqualvolta doveva staccarsi dal suo lavoro, dal suo mondo di parole del passato, si sentiva un grande imbranato, una persona del tutto inadeguata. Pagare le bollette era un’impresa cervellotica, parlare al padrone di casa un’imbarazzante questione, comprarsi un vestito un impegno da rimandare sicuramente. E le donne, poi… Non sapeva proprio come comportarsi con loro. Che dire? Che fare? Quali argomenti potevano interessare? Quali serate poteva offrire? Meglio rinunciare, meglio le madonne rinascimentali di quei poeti per i quali curava l’edizione critica dei canzonieri.

Una sera, una delle tante uguale alle altre, proprio mentre infilava la chiave nella cricca, vide infilato tra i battenti della porta un bigliettino. Chissà perché, fu subito certo che non fosse il solito segno del passaggio delle guardie giurate. Quando lo prese, sapeva già trattarsi di uno di quei misteriosi messaggi. Entrò in casa, prima di leggerlo. Si tolse la giacca, andò in cucina, prese un cartoccio di vino aperto da molti giorni e, incurante del sapore disgustoso, se ne versò un bicchiere, che buttò giù in un sorso. Prese quindi il biglietto, lo spiegò e lesse: Sfuggi impoetiche ninfe?” . Lo lisciò, lo mise da parte, apparecchiò per sé (e per chi altri?), tirò fuori dal frigo il prosciutto e il formaggio avanzati, li mise nel piatto, si sedette. Allontanò con delicatezza il piatto, incrociò le braccia sul tavolo, vi appoggiò la testa e, senza motivo, pianse compostamente.

Era diventato distratto. Lui, così meticoloso nel suo lavoro, così concentrato nello studio, stava per ore con lo sguardo fisso sulle pagine, senza vederle. Anche adesso, in biblioteca: non faceva che pensare a quei biglietti.

Cosa significavano? Perché li riceveva? Da dove provenivano?

Sicuramente era uno scherzo. Certamente qualcuno voleva burlarsi di lui. Era sempre stato una persona razionale. Perché ora si sentiva rabbrividire, come se chissà quali misteri si celassero dietro quelle parole?

Quelle parole. Quelle parole. E pensare che lui, con le parole, ci campava!

D’un tratto ebbe un’intuizione: scrisse su un foglio i testi dei biglietti che aveva trovato. Li mise uno di seguito all’altro, in colonna.

Spieghi incognite muffe

Fife pechinesi? gong muti..

Minchione, festeggi? Pfui!

Sfuggi impoetiche ninfe?

Ci impiegò solo un’ora per venirne a capo. Erano anagrammi. Tutti di una stessa frase: Fuggi finché sei in tempo.

Restituì con calma alla bibliotecaria il tomo che stava analizzando.

Ringraziò con la consueta cortesia.

Si infilò il cappotto.

Uscì dalla biblioteca.

Nessuno lo vide più.

Aglaja

UNO STRANO MORBO

Fu una cosa improvvisa.

Era al banco delle carni, quando alla sua solita domanda: “Ha gli ossibuchi?”, il macellaio rispose con voce flautata di donna: “Preferirei una camicetta di chiffon…”. “Scusi?”, fece la signora distrattamente, certa di avere inteso male, “Ho detto che preferirei una camicetta di chiffon, invece di questo grembiulone sporco!”. “Grazie, non importa.” mormorò la donna allontanandosi velocemente.

“Che tempi!”, pensava tra sé, “Guarda tu che maleducato… ma chi crede di prendere in giro?”, iniziava a risentirsi, “Devo ricordarmi di cambiare banco, non mi ci vede più, quello lì. Peccato, però: ossibuchi teneri come quelli che tiene non saprei dove trovarli”.

Mentre si affliggeva per gli ossibuchi perduti, prestò distrattamente orecchio alla conversazione di due donnine anziane, che, come lei, si aggiravano tra le merci del mercato, operose come api operaie e che, come tali, ronzavano fittamente tra loro, sorridendosi complici: “Vecchia bagascia sdentata, non riesco più a sopportare il tuo tanfo d’aglio, accompagnato dalle stronzate immani che spari!”, diceva l’una. “Ciance, ciance, ciance: le stesse ciance da quarant’anni! Dio mio! Morissi! Almeno mi prenderei la tua stanza, baldracca fallita!”, diceva l’altra.

“Ma roba da matti!”, si stupì la nostra signora, “Certo che l’Alzheimer è proprio triste”, si rammaricò compunta.

Già carica della spesa giornaliera, prese al volo un autobus per tornare a casa. Era pieno, come al solito, e, come al solito, non c’era posto per sedersi. Si aggrappò goffamente a un sedile, occupato da una ragazza bionda. La fissò speranzosa, ma quella le rispose con un’occhiata vacua. La signora, allora, chiese se potesse appoggiare le borse della spesa davanti ai suoi piedi. La ragazza rispose: “Se proprio devi rompere il cazzo a me…” La donna rimase sbalordita da tanta maleducazione, non seppe neppure cosa rispondere, tanto enorme ed immotivata le sembrava una simile risposta. Rossa in viso per la rabbia e l’indignazione (indignazione accresciuta dal fatto che nessuno – dico, nessuno! – avesse sentito il bisogno di intervenire in sua difesa per riprendere la ragazza) la signora scese alla prima fermata, decisa a proseguire a piedi il percorso verso casa, per far sbollire la furia e la mortificazione. Arrivata nell’atrio del palazzo, controllò la cassetta della posta e vide che era vuota. “Non è ancora passato il postino?”, chiese allora alla portinaia, che passava lo straccio sul corrimano, “Sì, abbiamo appena fatto una lunga scopata, ma non c’era niente per lei. Beh? Cos’ha da stare con quella bocca aperta? Non gliel’ha mai detto nessuno che le si vedono le otturazioni?”. La signora, senza rispondere, corse letteralmente su per le scale, aprì la porta con mano malferma e, finalmente, lasciati cadere i pacchi a terra, si lasciò cadere sul divano. “Ma cosa hanno tutti, oggi?”. Si sentiva oltraggiata: era come se tutti avessero perso l’uso delle buone maniere, dando aria alla bocca senza pensare. Persa nelle sue riflessioni, non si rese conto del tempo che passava e, quando il marito entrò in casa, sobbalzò: aveva dimenticato di preparare il pranzo! “Cosa fai spaparanzata sul divano?”, si informò l’uomo, sorpreso. “Oh, amore! Ho avuto una mattinata tremenda!”, e già stava per raccontare tutte le stranezze capitatele, quando il marito la interruppe: “E chi se ne frega.! E’ pronto il pranzo?” “Ma..” “Ma che ma e ma! Ho fame e sono stanco e poi non ho voglia di stare a sentire tutte le stupidaggini che dici di solito. E ora cosa fai? Cos’hai da urlare come una gallina isterica? Sei impazzita? Ma guarda tu: non solo ‘sta scema non mi fa da mangiare, pure una scenata mi riserva!” . Sempre più sconvolta, la donna si precipitò piangendo giù dalle scale, non senza udire i vicini che, affacciatisi alla soglia dei loro appartamenti, richiamati dal suo pianto isterico, commentavano tra loro: “Niente, niente: è quell’oca della signora Tonti. Avrà finalmente scoperto di essere cornuta”. Urlando e singhiozzando, scese in strada e, come una pazza, si lanciò tra le macchine e una moto la centrò in pieno. Prima di perdere i sensi, ebbe modo di sentire un mormorio confuso sopra di lei, poche, indistinte parole: “…Deficiente…” “…Proprio cretina…” “…E’ grassa…” “…Si è strappata il vestito…poco male: guarda che straccio!”, quindi svenne.

Riprese conoscenza qualche ora dopo. Sentiva dolore, era tutta ammaccata, aveva diverse fasciature e una gamba ingessata. Davanti a lei, un dottore le sorrideva: “Signora? Come si sente?”. Non riuscì a rispondergli: di colpo le era tornato alla mente quanto successo prima dell’incidente. Si mise a piangere scompostamente. “Su, non faccia così: le è ancora andata bene, sa? Con il colpo che ha preso poteva rimetterci la vita!” “Magari, dottore, magari!”, singhiozzò per tutta risposta. “Ma perché dice così, signora!”, disse il medico, costernato. Allora la donna gli raccontò tutto quello che le era capitato in quella folle mattinata. “Capisce, dottore? Come se non esistessi, come se ferirmi fosse per tutti indifferente!”, concluse stremata, con un filo di voce.

Per tutta risposta, il medico si tolse dalla tasca un apparecchietto, lo accostò all’orecchio della donna e guardò dentro “Mmmh…” ,commentò, “Molto interessante…”. Ripeté l’operazione con l’altro orecchio e disse: “Come immaginavo. Lei è stata colpita da un virus molto raro, che rende sensibilissimo l’orecchio interno alle frequenze nascoste, su cui viaggiano le intenzioni, e sordo alle frequenze normali, su cui sono trasmesse le solite parole. Dovrò quindi cercare di non pensare che lei ha…” “NO! Non lo dica!!!”, esclamò la signora con veemenza, ma interiormente soddisfatta di quanto aveva comunque sentito. Il dottore uscì velocemente dalla stanza ma, poco dopo, fu portata alla paziente una scatola di pillole con acclusa una ricetta e un bigliettino “Cara signora”, vi era scritto, “E’ meglio che le scriva, finché non è guarita. Segua scrupolosamente la posologia che le indico sulla ricetta e vedrà che, in pochi giorni, guarirà dal suo noioso disturbo”.

“Due pillole al giorno”, lesse quindi sulla ricetta, “Beh, se ne prendo tre guarisco prima”, si disse allegramente e difatti, nel giro di una settimana, tutto sembrò tornare alla normalità. Col marito che, premuroso, era andato a farle visita, non fece parola del suo vero disturbo, adducendo allo stress e alla stanchezza la crisi di nervi occorsale. Prima di congedarsi, l’uomo si chinò per sfiorarle la guancia con un bacio “Stammi lontano, brutto stronzo”, gli cinguettò lei, “Cosa?!?”, si sbalordì lui, “Mi fai senso”, rispose la moglie tendendogli le braccia, “Tu sei definitivamente impazzita!”, reagì lui scostandosi di scatto e lasciando di corsa la stanza, sbraitando per le corsie. “Ma perché ora mi tratta così?”, chiese affranta la donna al dottore che era subito accorso, “Signora, mi dica la verità: lei ha seguito con scrupolo le indicazioni che le avevo dato?”, le chiese questi, “Beh.. sì.. col cavolo!”, rispose innocentemente la paziente. “Ah ah!”, esclamò trionfante il medico, “Come supponevo! Avanti, quante pillole ha preso?” “Una in più al giorno, i primi due giorni, poi quattro al dì”, confessò lei un po’ avvilita, “E non ha letto le avvertenze?” “No, che avvertenze?” “In caso di sovra dosaggio, cambieranno le sue frequenze di emissione: inudibili i suoni, avvertibili i pensieri. E adesso, signora, come facciamo?”, la interrogò e si interrogò l’uomo, preoccupato. “Non so”, gli rispose la donna, poi, più sottovoce: “Preferisce qui nella mia stanza o di là nel suo studio?” e un lento sorriso le incurvò le labbra.

Aglaja

ALLUCINAZIONI OLFATTIVE

Solitamente, la cassetta della posta era sempre zeppa.

Di cartaccia, però: depliant, volantini, reclame di prodotti incredibili, servizi imbattibili, offerte irripetibili.

Quella mattina, tuttavia, la cassetta era vuota.

O così gli parve, mentre infilava le dita nella fessura per un prudente scrupolo. Quando le ritirò, le dita non stringevano nulla, neppure una sgradevole bolletta, neppure una banale cartolina illustrata (da quanti anni non ne riceveva più una?). Nulla, però… Però. Qualcosa nel suo cervello, un campanello d’allarme flebilissimo, una sensazione indefinita e indefinibile, si agitò senza concretizzarsi.

Fu qualche minuto più tardi, quando, al freddo della fermata dell’autobus, egli portò la mano alla bocca, nel gesto educato di coprirla per un colpo di tosse, che ne ebbe coscienza: le sue dita profumavano di pane appena sfornato. Un aroma delizioso, invitante, irresistibile che subito lo fece allontanare dalla fermata (incurante del bus che stava sopravvenendo) e dirigersi dal vicino panettiere, dove acquistò sei croccanti e ancora caldi panini all’olio. Si disse che avrebbe scontato l’inconsueto peccato di gola mattutino, recandosi a piedi fino al negozio dove lavorava come commesso: si trattava in fondo di sole tre fermate e soltanto la sua atavica pigrizia lo faceva aspettare ogni giorno il mezzo pubblico, rinunciando a una sana passeggiata.

Così fece, e di buon passo giunse alla meta persino prima del solito. Adele, la proprietaria di “NONSOLOMIOPI: la boutique delle lenti” lo accolse sorridendo: “Buongiorno, Alfredo. Siamo in anticipo, oggi, eh?”. Egli rispose al suo sorriso timidamente, con un cenno affermativo del capo. Non era di molte parole e ciò gli era spesso rimproverato affettuosamente dalla principale, una donna già avanti con l’età, tanto cordiale e comunicativa quanto Alfredo era timido e riservato. “Finirà che mi farai perdere tutti i clienti!” ripeteva sempre, scuotendo il testone canuto, al suo giovane e scorbutico commesso quando lo vedeva porgere freddamente, senza alcun commento, nuovi modelli da provare a signore capricciose e incontentabili, che volevano in realtà essere solo rassicurate sul loro perdurante fascino ipermetrope. Egli le detestava tutte. Detestava anche quei ragazzi che trascinavano madri troppo deboli all’acquisto di improbabili occhiali firmati, dal costo proibitivo, ma dal garantito prestigio presso gli amici. Detestava persino i professionisti sempre di fretta, che entravano nel negozio infastiditi dalla perdita di tempo che ciò comportava e che, miopi o presbiti che fossero, non lo vedevano comunque. Essi ordinavano solitamente sempre lo stesso tipo di montatura, sobria, elegante, costosa: cambiava solo il grado delle lenti, sempre più forte col crescere degli impegni e del conto in banca.

Alfredo era più dolce e spendeva qualche parola in più quando serviva sgomente vecchiette che non leggevano più la bolletta della luce, bambini condannati ad essere burlati come “quattrocchi” dai compagni, ragazzine ancora più timide di lui che domandavano sottovoce lenti sfumate per nascondere i loro sguardi.

Quella mattina, però, alle undici non era ancora entrato nessuno. Capitavano, giornate così, e Alfredo (guai lo avesse immaginato la sua principale) ne era segretamente contento. Aveva modo di fantasticare tranquillamente, di ripensare a un personaggio di un libro letto, a un particolare di un ricordo, a un progetto mai realizzato e – per questo-  meraviglioso. Stava proprio grattandosi il naso, immaginando di aprire una piccola libreria a New York, quando di nuovo si accorse che le sue dita profumavano. Questa volta non di cibo, ma di stampa: l’inconfondibile odore di carta e inchiostro dei libri freschi di stampa scaturiva dalle falangi e impregnava l’ambiente. I suoi occhi si spalancarono dietro le lenti (eh sì, ovviamente anche Alfredo era miope, miopissimo!) e saettarono in ogni parte del negozio per vedere se qualcuno, la principale o il ragionier Albini – che quella mattina era venuto a rivedere i conti con Adele – si fossero accorti di qualcosa. Nulla. I due continuavano a confabulare di entrate e uscite senza dar segno di attenzione ad Alfredo e alle sue percezioni olfattive. “Ho le allucinazioni?” si chiese il timido commesso, in un tentativo di razionalizzare il fenomeno. Si annusò circospetto le mani e scoprì con sgomento che l’odore era cambiato: un aroma di caffé, forte e intenso, saturava, così gli parve, l’ambiente. “Alfredo, caro, puoi andare fino al bar di fronte a prenderci due espressi?” lo apostrofò improvvisamente Adele, facendolo sobbalzare. Senza neppure rispondere, scattò verso la porta e si precipitò in strada. Doveva stare calmo: sicuramente era stata una curiosa coincidenza a spingere Adele a fargli quella richiesta proprio mentre le sue dita sembravano una torrefazione brasiliana. Riuscì a convincersi che lo stress gli stava tirando un brutto scherzo e, rasserenato, entrò nel bar. “Due espressi da portar via e una camomilla da bere subito” ordinò alla ragazza dietro il bancone. Mentre attendeva i caffé e la bevanda, si disse che avrebbe avuto bisogno di un po’ di pausa: certo, aveva ripreso da poco il lavoro, dopo il periodo di ferie del negozio, ma che vacanze erano state? Quindici giorni da suo padre, al paese, in campagna, chiusi nei loro silenzi e nel loro passato. Si vedevano poco e quel poco trascorreva sempre troppo lentamente per la loro reciproca, non rivelata ma ormai consapevole, estraneità. Era tornato in città più stanco e più triste di prima, con fantasmi mai rimossi di affetti perduti, di giorni di sole, di grandi speranze, di carezze tenere e indimenticate.

Intanto era arrivata la sua camomilla ed egli si confortò del calore della tazza tra le sue mani. Ma che strano effluvio aveva quella camomilla: sembrava, anzi, *era* un lieve sentore di talco, lo stesso profumo di… “Mamma!” urlò Alfredo lasciando cadere la tazza a terra. Il bar a quell’ora era affollato e il brusio era piuttosto un baccano. Ma il grido sgomento del giovane aveva per un attimo sospeso tutti in un silenzio irreale. “Scusate, scusate” mormorava confuso, mentre la barista, gentile, gli ripeteva di non preoccuparsi. Alfredo, però, non l’ascoltava e continuava ad annusarsi compulsivamente il palmo delle mani, se le passava sul viso, con una dolcezza folle, trasportato da quel profumo che era un ricordo d’amore.

Si ricompose, infine, quando la ragazza del bar gli porse un bicchier d’acqua e lo invitò a portar via i due caffé ordinati che già si stavano freddando.

Entrò nel negozio, porse silenziosamente il vassoio con gli espressi ad Adele e al ragioniere, che continuarono a far conti, senza accorgersi del viso pallido e degli occhi febbrili di Alfredo.

Egli tornò dietro al banco. Decise di riordinare lo scaffale degli occhiali per bambini. Ed ecco che dalle sue dita, delicatissime nel piegare le fragili stanghette e nel riporre gli astuccini colorati, si sollevarono i più disparati profumi: dallo zucchero filato alla gomma da masticare, dalla coccoina al grasso della catena della bici, dall’erba bagnata al sangue di un labbro spaccato. Terminò il lavoro che aveva iniziato con il consueto scrupolo accigliato. Quindi andò da Adele, interrompendo educatamente la sua conversazione con il ragioniere, e la informò, scusandosi, che non poteva stare lì dentro un minuto di più. La lasciò attonita e senza altre parole, uscendo in fretta dal negozio per recarsi alla vicina stazione ferroviaria.

Mentre allo sportello prendeva un biglietto per il suo paese, avvertì sulle dita l’odore del tabacco da pipa di suo padre.

Aglaja

KERGUELEN

 

Questo è un racconto che ho scritto molti anni fa. Vi sono ingenuità stilistiche e vezzi narrativi dei quali oggi, forse, non abuserei. Ma la trama, piccola e sognata, mi intriga ancora adesso, anche se poi, a San Pietroburgo, sono stata davvero 🙂

Mi intrigò subito, appena lo vidi.

“Permette?” e si accomodò di fronte a me.

Sorrisi, con educata e finta indifferenza. Così finta che iniziò subito a discorrere.

“Cosa legge?” domandò, ammiccando al volumetto che tenevo tra le mani.

Solitamente mi irritano le conversazioni imposte, di circostanza o di abbordaggio.

Non quella sera.

“Cechov, le novelle”

“Ottima scelta” annuì.

Guardò fuori dal finestrino, mentre lo sbirciavo curiosa.

Strano tipo, “appena uscito da un libro”, mi trovai a dire a me stessa.

Forse altri sarebbero stati colpiti dall’abbigliamento (ho ritegno a ricordare la cravatta di seta allacciata morbidamente, la giacca attillata, i guanti sottili: sembra una caricatura, in questa descrizione, ma vi assicuro che non mi parve tale) o dai chiari capelli lucidi, pettinati indietro negligentemente.

Ma a me infiammavano (ripeto, ne fui immediatamente intrigata) gli occhi: beffardi, consapevoli, inquieti.

Stupida ragazza.

Quanti anni aveva? Mah.. ancora adesso, ripensandoci, non riesco a valutarlo: pareva a tratti giovanissimo, persino infantile, a tratti quasi anziano, a seconda di come la fioca luce dello scompartimento gli disegnava le ombre sul volto.

Cercai nel mio archivio di immagini quella che più potesse avvicinarsi al bizzarro personaggio: “un prestigiatore, un viveur, uno scrittore da salotti, un seduttore, un giocatore..” elencavo tra me. Nulla pareva adeguato a definire quell’uomo.

O forse tutto.

“Anch’io amo i russi.” riprese “Conosce Dostevskij? Certo che lo conosce”  chiese e si rispose, senza darmi modo di parlare. “E’ mai stata a San Pietroburgo?”  “Solo nei libri” e sorridemmo entrambi.

“E’ così che lei fugge?” mi apostrofò quindi bruscamente.

Rimasi sorpresa, quasi più dal tono che dalle parole.

“Beh, è un luogo comune, no?, l’evadere con la lettura..” banalizzai.

Non mi concesse di farlo.

“Non mi riferivo a uno stupido modo di dire” mi sferzò con una durezza incomprensibile “Lei sta fuggendo davvero. E lo sa”.

Tacqui.

Lo sferragliare del treno riempiva il finto silenzio in cui ascoltavo i miei pensieri.

“Non so nulla, non capisco..” fissavo quegli occhi febbrili “E’ uno scherzo” provai a sorridere.

“Non ne ho il tempo” e inaspettatamente rispose al mio sorriso, ma poi riprese a parlare con molta serietà.

“Anch’io sono fuggito, sa?”

“Ah sì?”

“Ha mai sentito parlare della Confraternita delle Persone Perdute?”

“La Confraternita delle Persone Perdute?” ripetei ottusamente

“ Proprio. Ne faccio parte da otto anni” aggiunse, non capii se con orgoglio o rammarico.

“Di che si tratta?” chiesi sporgendomi verso di lui.

“Siamo tutte persone che, fuggendo, si sono perse. Non riusciamo più a tornare indietro”

Rimasi in silenzio, in attesa di un’ulteriore spiegazione che non arrivò.

“Mi perdoni” mi decisi a chiedergli, vedendo il suo sguardo perso sulle luci che fuggivano fuori dal finestrino “E’ un circolo di evasi? O di smemorati?” provai a buttarla sullo scherzo, ma la mia voce non era allegra.

Posò nuovamente quegli strani occhi su di me.

“Ho iniziato come lei..” mormorò, e la sua voce era morbida, lontana, una voce che mi pareva di riconoscere, o meglio, di conoscere da sempre.

“Ho iniziato come lei” riprese “Leggevo e mi perdevo nelle vite degli altri, in mondi, epoche, storie lontane e più vere della mia storia, della mia esistenza, del mondo in cui ero costretto a vivere, penosamente”.

Sospirò.

“Arrivai ad un punto che confondevo il dipanarsi delle mie vicende personali con quello del protagonista del romanzo che stavo vivendo, leggendo, cioè” si corresse “Non mi importava più nulla di me, scialbo e insignificante nella mia storia già scritta. Potevo amare, morire, urlare, combattere, soffrire, godere, con un senso –capisce?- un senso *artistico*, perfetto, molteplice” Si interruppe, per prendere fiato: si era accalorato e le sue guance mi parvero colorirsi, ma forse fu un lampo che venne da fuori.

Lo capivo perfettamente. Glielo dissi. Mi guardò con un’intensità che ancora oggi, al ripensarci, mi scuote profondamente.

“Lo so” disse “per questo le ho parlato della Confraternita”. Era serissimo, quando continuò “Siamo in tanti, sa? E ci siamo perduti. Io, per esempio, leggevo “Il giocatore” di Dostoevskij quando è successo…”

“Vuol dire che lei…” cominciavo ad intuire.

“Sì. Mi sono perso in quel romanzo. Non sono tornato più indietro. Ma non è successo solo a me, creda” si affrettò a precisare “Ad alcuni è capitato con libri diversi, ma ad altri è bastato seguire una vela in un orizzonte marino, altri ancora si sono smarriti guardando dalle imposte delle loro finestre. Non c’è un unico modo, un unico viaggio, un’unica fuga”. Si interruppe.

“E dove si va, quando ci si perde?” chiesi “E gli altri, se ne accorgono che siamo perduti?” (Sì, dissi “siamo”).

“Dove si va? E’ difficile spiegare. Non c’è più spazio, non c’è più tempo. Non sei più tu, o meglio: sei come uno specchio andato in frantumi, ogni frammento riflette qualcosa di diverso e di uguale, qualcosa che ha perso la propria unità e si spezza in mille immagini, in mille…”si interruppe, pensieroso “…parti di te. Gli altri… no, non si accorgono di niente. Non sanno che parlano ad un guscio vuoto. Non ci conoscevano prima, non ci conoscono poi”.

“E la confraternita?” lo incalzai

“Le persone perdute si riconoscono tra loro, si… annusano, si scovano. E si uniscono, fratelli in un’anomalia perfida e meravigliosa”.

Sfuggivo, ora, il suo sguardo, persa a seguire lo zigzagare di una linea bianca in una lunghissima galleria.

Quando ne uscimmo, voltai gli occhi, ma lui non c’era più.

Al suo posto, sul sedile, c’era “Il giocatore” di Dostoevskij.

Dopo pochi minuti, il treno si fermò ed io scesi alla stazione di San Pietroburgo.

Aglaja

IL CANE SULLA GRONDAIA

La prima volta che lo vide fu in un anticipo di primavera.

Era gennaio, in realtà, ma l’aria era così tersa e limpida che, come sempre, il ragioniere dimenticò il calendario e si convinse che l’inverno era ormai cosa passata. Il sole tiepido e il cielo azzurro (“Da cartolina”, come in quelle giornate era solito ripetere, tra sé e a chi incontrava) parevano confermare tale illusione. “Nina, vado io a fare la spesa?” si offerse quella mattina. Era ormai già da un anno in pensione e, dopo l’iniziale sbandamento, aveva accettato di buon grado la nuova routine, fatta di piccoli incarichi che la moglie volentieri gli affidava, forse più per non vederselo ciondolare in casa che per effettivo bisogno.

Così, anche quel giorno, la signora Nina gli stilò sulla paginetta di un notes l’elenco delle cose che mancavano. “Pane, latte, uova, cipolle, patate..” leggeva muovendo leggermente le labbra il ragioniere, mentre già si trovava per via “Due etti di prosciutto cotto – del migliore-, altrettanti di salame..” voleva imparare la lista a memoria: si piccava di non fare come i vecchietti (eh sì, per lui gli altri pensionati, magari suoi coetanei, erano “vecchietti” alzheimerati) che quando toccava a loro nei negozi, tiravano fuori foglietti cincischiati – magari già unti e un po’ strappati – dalle tasche. Per leggerli, poi, inforcavano occhiali con spesse lenti da presbiti, quelle che rendono gli occhi enormi e gli sguardi più smarriti.

Il ragioniere ci teneva a mostrarsi ancora giovanotto, quasi fosse in vacanza, casualmente in ferie ma volonteroso nell’assolvere minute incombenze. Gli piaceva fare bella figura nei negozi: si schiariva la voce, tirava la pancia in dentro, sfoderava sorrisi e battute argute e snocciolava con sicurezza l’elenco preparato dalla moglie.

E poi aveva le sue soste fisse: dal giornalaio, che lo salutava con uno squillante “Buongiorno ragioniere!”, facendolo ancora sentire importante; con l’ex collega dell’ufficio commerciale andato in pensione due anni prima, che lo attendeva sempre alla prima panchina dei giardini, per leggere i quotidiani e commentarli animatamente; dal piccolo caffè d’angolo, con la barista che serviva ottimi cappuccini e squisita cordialità.

Anche quel giorno, dunque, si preparava ad affrontare la mattinata di buon umore.

In seguito non ricordò più il perchè né il momento preciso, ma accadde che improvvisamente si ritrovò col naso all’aria ad osservare qualcosa. Forse aveva sentito un aereo passare, forse una goccia (qualcuno che innaffiava le piante? un uccellino incontinente?) lo aveva raggiunto sul viso, forse il riverbero del sole su un vetro lo aveva abbagliato. Chissà. Fatto sta che levò lo sguardo in alto e lo vide.

Un cane.

Un cane nero che camminava al di là del parapetto del terrazzo di un attico al settimo piano.

Si muoveva, apparentemente senza alcun timore, su quei pochi centimetri che separavano il terrazzo dalla grondaia.

Al ragioniere balzò il cuore in petto e represse a stento un grido. Si sentì quasi in preda alle vertigini, come se lui stesso si trovasse in quella assurda situazione di precario equilibrio. Come aveva potuto la povera bestiola cacciarsi in un simile pasticcio? Da uomo razionale qual era, cercò subito una soluzione: corse al portone di quel caseggiato e citofonò all’inquilino dell’ultimo interno. Suonò più volte, ma nessuno gli rispose. Provò allora ad altri numeri e finalmente una vocina gracchiante e femminile gli rispose che i signori del 15 stavano tutto il giorno fuori casa e rientravano solo la sera. Il ragioniere spiegò preoccupato la storia del cane, ma la signora gli rispose che si sapeva, che non era il caso di allarmarsi. Già da tempo si erano accorti che l’animale riusciva a infilarsi sotto il parapetto sbucandone oltre e che, dopo aver fatto il giro di tutta la grondaia che circondava il piano, se ne tornava da dove era venuto. Finora non era mai accaduto nulla e, del resto, quelli del 15 erano tanto sostenuti e riservati che a nessuno era parso opportuno avvertirli.

Il ragioniere tornò così sui suoi passi. Attraversò la strada per entrare dal salumiere, ma tant’è.. istintivamente lo sguardo tornò in alto, verso quella strana creatura equilibrista. Era ancora lì, ferma adesso, immobile col muso rivolto verso il sole. All’uomo parve di scorgerne persino gli occhi stretti per non farsi abbacinare, un’espressione di sfida e godimento che sconcertava. Certo doveva essere una sua fantasia, una reazione irrazionale ad un evento illogico.

Entrò nel negozio, ma quando toccò a lui si confuse, fu costretto suo malgrado a tirare fuori la lista e a leggerla, tenendo ben tese le braccia per mettere a fuoco le lettere. Seccato per questa sua piccola défaillance, dimenticò le consuete soste e tornò a casa di pessimo umore. Fu sgarbato anche con la moglie che gli chiedeva conto di aver dimenticato pane e giornali. Trascorse il pomeriggio a studiare il bilancio domestico e a brontolare con la signora Nina sulle spese eccessive del mese precedente.

Il mattino dopo, addusse a un attacco di sciatica il rifiuto di uscire e per due giorni si dedicò a una sua raccolta di francobolli, da tempo trascurata, lasciando alla moglie l’incombenza della spesa.

I francobolli e qualche attenzione materna da parte della signora Nina non tardarono a rinfrancarlo e ben presto lo strano episodio del cane e la figuraccia dal salumiere furono archiviate. Nei giorni seguenti evitò comunque di passare da quella via, preferendo servirsi al supermarket del corso.

Poi la vita riprese tranquilla col solito tran tran, gli acquisti, le soste, le rassicuranti abitudini. Un paio di volte si impose di lanciare un’occhiata fugace a quel terrazzo, ma del cane non vide traccia.

Due settimane trascorsero e il ragioniere si trovava a chiacchierare amabilmente all’angolo con una conoscente, quando, senza motivo alcuno, ancora lasciò lo sguardo dirigersi all’ultimo piano del palazzo di fronte. E questa volta era lì: il cane stava correndo, agile e sicuro, su quello stretto bordo. Sembrava una striscia nera, maledetto lui, tanto veloce girava in tondo sulla grondaia.

Il ragioniere, come stranito, se ne stava a bocca aperta ad osservarlo, senza accorgersi che la sua interlocutrice, dopo aver vanamente cercato di riattirare a sé la sua attenzione, se ne era andata offesa, lasciandolo solo.

Si riscosse da quella visione quando si sentì apostrofare dall’ex collega, che lo invitava a prendere qualcosa di caldo in quella giornata ventosa. Lo seguì docilmente al caffè, ma partecipò distrattamente al solito scambio di battute con la barista. Continuava a pensare a quel cane. Sembrava sfidare le leggi della fisica e del buon senso: come faceva a mantenere l’equilibrio? come poteva non precipitare, spazzato via come una foglia dal vento? Uscì dal locale senza pagare, lasciando attonito chi ben lo conosceva come uomo attento e preciso.

Lo stesso pomeriggio ritornò in quella strada, ma non vide il cane.

Ripassò il giorno seguente: nessuna traccia dell’animale.

Dovette passare un’altra settimana prima che il cane nero ricomparisse. Questa volta era pigramente allungato sia con le zampe anteriori che con quelle posteriori. Sembrava un elastico teso. Come potesse non rotolare di sotto appariva inspiegabile: sembrava quasi fosse incollato in quello stretto spazio. D’un tratto si tirò su, come sollevato da fili invisibili, e girò il muso verso la strada. Al ragioniere parve di essere osservato con distaccata curiosità da quel nero mistero. Dopo qualche secondo, con lentezza, il cane iniziò il suo giro intorno alla grondaia. Al terzo passaggio, di nuovo guardò in basso e di nuovo sembrò studiare quell’uomo che ne seguiva affascinato i passi. Riprese quindi la passeggiata, ma non riapparve una quarta volta.

In inutile attesa, il ragioniere restò immobile sul marciapiedi ancora qualche minuto. Poi svoltò anch’egli.

Aglaja

LA CONFRATERNITA DELLE PERSONE PERDUTE

Mi intrigò subito, appena lo vidi.

“Permette?” e si accomodò di fronte a me.

Sorrisi, con educata e finta indifferenza. Così finta che iniziò subito a discorrere.

“Cosa legge?” domandò, ammiccando al volumetto che tenevo tra le mani.

Solitamente mi irritano le conversazioni imposte, di circostanza o di abbordaggio.

Non quella sera.

“Cechov, le novelle”

“Ottima scelta” annuì.

Guardò fuori dal finestrino, mentre lo sbirciavo curiosa.

Strano tipo, “appena uscito da un libro”, mi trovai a dire a me stessa.

Forse altri sarebbero stati colpiti dall’abbigliamento (ho ritegno a ricordare la cravatta di seta allacciata morbidamente, la giacca attillata, i guanti sottili: sembra una caricatura, in questa descrizione, ma vi assicuro che non mi parve tale) o dai chiari capelli lucidi, pettinati indietro negligentemente.

Ma a me infiammavano (ripeto, ne fui immediatamente intrigata) gli occhi: beffardi, consapevoli, inquieti.

Stupida ragazza.

Quanti anni aveva? Mah.. ancora adesso, ripensandoci, non riesco a valutarlo: pareva a tratti giovanissimo, persino infantile, a tratti quasi anziano, a seconda di come la fioca luce dello scompartimento gli disegnava le ombre sul volto.

Cercai nel mio archivio di immagini quella che più potesse avvicinarsi al bizzarro personaggio: “un prestigiatore, un viveur, uno scrittore da salotti, un seduttore, un giocatore..” elencavo tra me. Nulla pareva adeguato a definire quell’uomo.

O forse tutto.

“Anch’io amo i russi.” riprese “Conosce Dostevskij? Certo che lo conosce”  chiese e si rispose, senza darmi modo di parlare. “E’ mai stata a San Pietroburgo?”  “Solo nei libri” e sorridemmo entrambi.

“E’ così che lei fugge?” mi apostrofò quindi bruscamente.

Rimasi sorpresa, quasi più dal tono che dalle parole.

“Beh, è un luogo comune, no?, l’evadere con la lettura..” banalizzai

Non mi concesse di farlo.

“Non mi riferivo a uno stupido modo di dire” mi sferzò con una durezza incomprensibile “Lei sta fuggendo davvero. E lo sa”.

Tacqui.

Lo sferragliare del treno riempiva il finto silenzio in cui ascoltavo i miei pensieri.

“Non so nulla, non capisco..” fissavo quegli occhi febbrili “E’ uno scherzo” provai a sorridere.

“Non ne ho il tempo” e inaspettatamente rispose al mio sorriso, ma poi riprese a parlare con molta serietà.

“Anch’io sono fuggito, sa?”

“Ah sì?”

“Ha mai sentito parlare della Confraternita delle Persone Perdute?”

“La Confraternita delle Persone Perdute?” ripetei ottusamente

“ Proprio. Ne faccio parte da otto anni” aggiunse, non capii se con orgoglio o rammarico.

“Di che si tratta?” chiesi sporgendomi verso di lui.

“Siamo tutte persone che, fuggendo, si sono perse. Non riusciamo più a tornare indietro”

Rimasi in silenzio, in attesa di un’ulteriore spiegazione che non arrivò.

“Mi perdoni” mi decisi a chiedergli, vedendo il suo sguardo perso sulle luci che fuggivano fuori dal finestrino “E’ un circolo di evasi? O di smemorati?” provai a buttarla sullo scherzo, ma la mia voce non era allegra.

Posò nuovamente quegli strani occhi su di me.

“Ho iniziato come lei..” mormorò, e la sua voce era morbida, lontana, una voce che mi pareva di riconoscere, o meglio, di conoscere da sempre.

“Ho iniziato come lei” riprese “Leggevo e mi perdevo nelle vite degli altri, in mondi, epoche, storie lontane e più vere della mia storia, della mia esistenza, del mondo in cui ero costretto a vivere, penosamente”

Sospirò.

“Arrivai ad un punto che confondevo il dipanarsi delle mie vicende personali con quello del protagonista del romanzo che stavo vivendo, leggendo, cioè” si corresse “Non mi importava più nulla di me, scialbo e insignificante nella mia storia già scritta. Potevo amare, morire, urlare, combattere, soffrire, godere, con un senso –capisce?- un senso *artistico*, perfetto, molteplice” Si interruppe, per prendere fiato: si era accalorato e le sue guance mi parvero colorirsi, ma forse fu un lampo che venne da fuori.

Lo capivo perfettamente. Glielo dissi. Mi guardò con un’intensità che ancora oggi, al ripensarci, mi scuote profondamente.

“Lo so” disse “per questo le ho parlato della Confraternita”. Era serissimo, quando continuò “Siamo in tanti, sa? E ci siamo perduti. Io, per esempio, leggevo “Il giocatore” di Dostoevskij quando è successo..”

“Vuol dire che lei..” cominciavo ad intuire.

“Sì. Mi sono perso in quel romanzo. Non sono tornato più indietro. Ma non è successo solo a me, creda” si affrettò a precisare “Ad alcuni è capitato con libri diversi, ma ad altri è bastato seguire una vela in un orizzonte marino, altri ancora si sono smarriti guardando dalle imposte delle loro finestre. Non c’è un unico modo, un unico viaggio, un’unica fuga”. Si interruppe.

“E dove si va, quando ci si perde?” chiesi “E gli altri, se ne accorgono che siamo perduti?” (Sì, dissi “siamo”).

“Dove si va? E’ difficile spiegare. Non c’è più spazio, non c’è più tempo. Non sei più tu, o meglio: sei come uno specchio andato in frantumi, ogni frammento riflette qualcosa di diverso e di uguale, qualcosa che ha perso la propria unità e si spezza in mille immagini, in mille..”si interruppe, pensieroso “..parti di te. Gli altri.. no, non si accorgono di niente. Non sanno che parlano ad un guscio vuoto. Non ci conoscevano prima, non ci conoscono poi”.

“E la confraternita?” lo incalzai

“Le persone perdute si riconoscono tra loro, si..annusano, si scovano. E si uniscono, fratelli in un’anomalia perfida e meravigliosa”

Sfuggivo, ora, il suo sguardo, persa a seguire il zigzagare di una linea bianca in una lunghissima galleria.

Quando ne uscimmo, voltai gli occhi, ma lui non c’era più.

Al suo posto, sul sedile, c’era “Il giocatore” di Dostoevskij.

Dopo pochi minuti, il treno si fermò ed io scesi alla stazione di San Pietroburgo.

PROVE GENERALI

La cosa più semplice le sembrò cominciare con se stessa.

Si mise di fronte al grande specchio del bagno.

Si guardò con aria critica e rassegnata ad un tempo. Si fissò negli occhi a lungo. Alzò un sopracciglio. Poi non resistette ed iniziò a fare smorfie, boccacce: incrociava le iridi, tirava fuori la lingua, con le dita si schiacciava il naso e tirava le labbra deformandole in un ghigno grottesco. Quindi gettò la testa in avanti, scompigliandosi i capelli lunghi e già arruffati di natura. Tiratasi su si osservò ancora. Si alzò la maglia, tirò giù la gonna. Si spogliò completamente, gettando gli indumenti sul pavimento.

Considerò con sarcasmo il suo corpo e, incrociando di nuovo il suo stesso sguardo nello specchio, finalmente rise, rise di cuore, sgangheratamente, rumorosamente.

“Sei ridicola”, disse ad alta voce, con soddisfazione.

Il giorno dopo proseguì il lavoro.

Andò al parco. Era ormai primavera inoltrata, le giornate si stavano allungando, il cielo era sereno e faceva già molto caldo. Si sedette su una panchina, togliendosi la giacca leggera e lasciando che il sole cominciasse a colorirle la pelle. Una sensazione piacevole. Un tempo l’avrebbe goduta maggiormente, ma adesso il ronzio continuo dei pensieri l’infastidiva, così come l’infastidiva la consapevolezza che si era recata al parco con uno scopo ben preciso. Tirò fuori dalla borsa un sacchetto con dei pezzettini di pane secco e, alzatasi di scatto dalla panchina, si diresse al laghetto dei cigni e delle oche. Le era sempre piaciuto tirare i bocconcini nell’acqua ed osservare quei lunghi colli protendersi rapidi a gara per divorarli. Ma oggi aveva un compito speciale da eseguire.

Come sempre, dopo pochi minuti, alcuni bambini la circondarono: “Signora, mi fai provare a lanciare il pane?” “Scusi, posso dare anch’io da mangiare ai cigni?”. Di solito si lasciava intenerire da quelle vocine petulanti e volentieri lasciava il sacchetto ai bimbi perché nutrissero i pennuti golosi. Ma quel giorno le cose andarono diversamente: prese il sacchetto, lo rovesciò, calpestò il pane secco sotto le suole fino a ridurlo in polvere finissima, e se ne andò con un feroce sorriso stampato sul volto, mentre i bambini la guardavano esterrefatti.

La prossima tappa sarebbe stato il macellaio.

Entrò nel negozio, molto affollato come al solito. Era l’unico macellaio del quartiere e per questo carissimo. Eppure la ressa era costante: al padrone piaceva chiacchierare, fare battute, imporre una cordialità crassa, da re del pollaio, e accettata da tutte le galline lusingate che acquistavano fettine e complimenti, bistecche e doppi sensi.

Attese pazientemente il suo turno, sopportando, come sempre, le vecchiette che le passavano avanti fingendo di non vederla o pretendendo di essere entrate prima. Finalmente toccò a lei. “Mi dia un rotondino da fare arrosto, per favore, che sia sul chilo”, chiese con fredda educazione. Il macellaio arrotò due coltellacci (notò che lo faceva sempre quando la serviva, e si chiese se fosse un caso o una forma di aggressività verso i suoi modi glaciali) e tagliò un bel pezzo di carne, rossa e compatta. Glielo presentò orgogliosamente, ostentando un malizioso buonumore: “Da me” disse, strizzandole l’occhio, “una donna sa sempre di poter trovare quello che si aspetta” “Sì, un cafone al banco e un ladro alla cassa” gli rispose lei, raggiante, facendogli l’occhiolino di rimando. Uscendo senza prendere l’arrosto, pestò con voluttà il piede di un’elegante signora che la osservava con sconcerto.

Il quarto momento non era stato programmato, ma non per questo fu meno utile o gradito.

Era in casa, stava preparando la cena per la sera, spignattando un po’ svogliatamente. Da tempo aveva perso persino il gusto di cucinare. Metteva insieme un primo, un secondo, senza amore, senza fantasia, ripetendo piatti banali, ricette scontate. Ripeteva meccanicamente gli stessi gesti, masticando ottusamente patatine, noccioline, stuzzichini che le toglievano poi la fame vera, quella che, peraltro, non c’era più da tempo. Improvvisamente suonò il campanello della porta d’ingresso. Aveva una tuta macchiata, gli zoccoletti ai piedi, ma non se ne preoccupò mentre apriva la porta. Era la vicina di casa. Curata ed elegante come sempre. Le balenò il pensiero che nello sciacquone del water tenesse Chanel n°5. La udì chiederle, se, per caso, avesse dello zucchero che, ahimé, ella non si era accorta di aver terminato (e intanto i suoi occhietti chiari e ben truccati sembravano saettare nell’ingresso, calcolando esattamente i grammi di polvere depositati su tutte le amate sciocchezze accatastate sugli scaffali). Lei allora le scoccò uno smagliante sorriso e le rispose che sì, effettivamente in casa aveva dello zucchero. Quindi chiuse dolcemente la porta sulla sua bocca poco elegantemente spalancata.

Nei giorni seguenti si sbizzarrì.

Rifiutò di fare lo scontato straordinario che da sempre si esigeva da lei; rivelò a sua suocera che la torta di carote, che ogni mercoledì le portava, le faceva venire la nausea e l’aveva sempre rifilata al cane. Alla maestra di suo figlio disse serenamente che le poesie haiku che faceva studiare ai bambini erano una boiata pazzesca e che più utile sarebbe stato insegnare l’ortografia; al benzinaio dove solitamente faceva il pieno intimò di non rubare sul carburante come di consueto. Sulla metropolitana ignorò scientemente le occhiate minacciose delle vecchiette e non cedette il posto; al cinema sgranocchiò rumorosamente i pop corn e mise i piedi sul sedile della fila davanti. Radunò tutte le pillole che doveva prendere quotidianamente e le cacciò allegramente nella spazzatura; la stessa fine fece fare a tutte le carte che, nel corso degli anni, aveva accumulato, ritenendole indispensabili al cuore e alla memoria. Una mattina telefonò al principale, informandolo che non si sarebbe recata al lavoro, adducendo un feroce mal di testa: andò invece sulla passeggiata a mare, scendendo sulla scogliera, tirando fuori dalla borsa mezzo chilo di focaccia e divorandosela voluttuosamente mentre gli spruzzi delle onde le bagnavano il viso.

Giunse quindi il momento tanto atteso. Sii sentiva finalmente pronta. Adesso, sì, poteva farlo. Niente l’avrebbe dissuasa. Pochi istanti e tutto sarebbe cambiato.

“Mi ami ancora?” chiese lui.

“Sì” rispose lei.

Era stato tutto inutile.

Aglaja

NASCITA DI UNA CONSAPEVOLEZZA

Il signor Rodolfo, fin da bambino, amava le rime. Intendiamoci, non era un appassionato di versi aulici o di classiche poesie, no. Rodolfo era semplicemente convinto che nelle rime vi fosse il magico segreto della vera essenza delle cose. E questo valeva sia per gli oggetti più insignificanti sia per le persone che più contavano nella sua vita.

Non avrebbe mai svelato ad alcuno, però, questo suo segreto. In effetti se ne vergognava un poco, apparendo persino a se stesso stupido.

Come confessare, ad esempio, che, ragazzino, cominciò ad apprezzare veramente il formaggio, quando realizzò che una delle sue rime era *maggio*? Come spiegare che tale parola gli evocava un alberello di maggiociondolo dagli splendidi grappoli di fiori gialli, quelli che si incantava a osservare nel loro luminoso oscillare nella brezza? E che , ancora, poteva vedere, con quella parola, le rose di maggio, quelle che sue madre tanto amava e di cui conservava i petali profumati nei libri? Per questo, il signor Rodolfo si commuoveva davanti a una scamorza od annusava estasiato un gorgonzola  come fosse stato un fiore: ma chi poteva comprenderlo?

E poi: tra i pesci, per dire, adorava l’anguilla, perchè la collegava alla rima *scintilla* e quel pesce sottile, dai bagliori d’argento, gli pareva una stella cometa, una stella filante di luce nell’acqua.
Anche per le persone era la stessa cosa: la signora Colummella Pierina, arcigna professoressa di greco in quarta ginnasio, rimase per sempre nei suoi ricordi come la dolce *Stella Marina* che egli, attraverso la rima, aveva scoperto tra fondali di aoristi e di piuccheperfetti. Il truce macellaio Pietro – il signor Rodolfo ne era convinto- doveva il suo aspetto burbero ed infelice all’aggettivo *tetro* che con il suo nome rimava.
E così, anche quando si innamorò, il signor Rodolfo diede grande importanza alla rima che accompagnava il nome della fanciulla prescelta. Il suo primo amore fu una certa Violetta, che Rodolfo volle creder *perfetta*, ma che di fatto lo tradì con lo stagnino.

Il secondo si chiamava Anna, ma Rodolfo intuì certe sue intimità con gli spinelli (sempre grazie alla rima.) e la dimenticò rapidamente.

Il terzo fu quello decisivo: era la signora Patrizia ed era così bella che il signor Rodolfo finse con se stesso di non aver notato la rima con *nequizia* e preferì soffermarsi sulla più lieta rima *letizia*. Mal gliene incolse, come vedremo in seguito.

Ma non era di questo che vi volevo parlare, bensì di quella volta che il signor Rodolfo cominciò a riflettere sul proprio nome. “Rodolfo”, disse a se stesso il signor Rodolfo (anche perchè se lo avesse detto a se stesso il signor Amilcare, avrebbe sbagliato persona ed io avrei sbagliato racconto). “Rodolfo”, ripetè pensieroso. Fino a quel momento aveva badato a cercare rime per ogni cosa e persona, e mai si era soffermato su di sè. Con cosa faceva rima *Rodolfo*? Qual era la vera essenza di quel mite signore, tutto casa e lavoro, marito e padre esemplare, mai una parola dai toni forti, mai un comportamento appena sopra le righe..”*Golfo*?” si chiese perplesso il signor Rodolfo. Mmmh, non lo convinceva.. “*Zolfo*?” Naaa, non prendeva fuoco facilmente.. Insomma: lui che aveva trovato una rima per tutto e tutti, non riusciva a scovarne una che definisse la sua personalità. “Evidentemente, la mia vera essenza è così complessa che una semplice rima non è sufficiente. Occorre passare alle assonanze!”

Si concentrò, passò in rassegna diverse possibilità, quando, improvvisamente, esclamò ad alta voce: “Polimorfo!” Ma che splendida parola, che superbo aggettivo! Non sapeva neppure lui da dove gli fosse uscito. Di fatto, non ne conosceva neppure il significato: gli si era manifestato come un’apparizione, un’epifania, un piccolo miracolo di autocoscienza. In preda a una forte eccitazione corse a consultare un dizionario: “Polimorfo” lesse “Che è in grado di assumere aspetti e modi diversi”. Accidenti. Che possibilità meravigliosa! Che orizzonti prima sconosciuti gli si aprivano davanti. “Polimorfo!” continuava a ripetere tra sè, gustando la delizia del suono, assaporando ogni sillaba che quasi sentiva strusciare sui denti. Già si vedeva, come un Tiramolla vivente, assumere aspetti sempre nuovi, adattare la figura e i modi alle circostanze, fisiche ed ambientali, più diverse. Avrebbe potuto essere una farfalla in un prato, un pesce nei torrenti, un pettirosso nel cielo, uno.. “Stronzo!” lo apostrofò la signora Patrizia adirata “Quante volte devo dirti di metterti le pattine quando entri in casa?”.

Fu da allora che il signor Rodolfo prese a trascorrere tanto tempo tra le mura del bagno: aveva scoperto il suo habitat e la sua essenza monoforme.

Aglaja

SENZA GUSCIO

La osservo, in questa serata grigia di pioggia indecisa, di nuvole basse, di suole consumate che si sottraggono alle strade consuete. Osservo, restando ferma ai bordi della creusa, la limaccia, lumassa bousa, e relativizzo alla mia immobilità il suo moto. Procede impercettibile, implacabile e inconsapevole, neppure conscia di una precarietà che sa di eterno, nel suo riproporsi inevitabile. Trascorre l’orto, la strada e il tempo con costante lentezza, con sfuggente determinazione. Scivola viscida sulla scialba e sottile scia lasciata. Nulla difende il corpo molle e oblungo: flaccida nudità ondulante su muco vischioso. Nella viridità di erbe e muschi si inoltra, strisciando quieta. Oscuro è quanto nell’umidore si cela, ma rifugge luce e calore: appartiene alle sfumature della sera, alle ombre della notte, alle serene inquietudini del riposo altrui. Cerca, nel rezzo amico, polpa di piante generose e foglie che la sostentino e la proteggano. Si nasconde. Il necessario piacere dello sfuggire. La scelta obbligata. La sua natura. Ovvio riconoscersi in quel corpo indifeso, nudo di inconsistente vulnerabilità, nel suo scivolare invischiato del proprio umore. Immagini di un’infanzia di paese materializzano ombre di vecchi: ingoiano limacce vive, persuasi che la bava avrebbe sanato uno stomaco ulcerato di fatica e dolore. E poi un bambino: ginocchia, graffiate come le mie, affondano nella terra bagnata dopo il temporale. Nel piccolo pugno stringe sale. Si china sulla limaccia che spunta nell’erba. Una neve di infiniti cristalli si posa sul corpo scuro e molle, che ora si contorce, si asciuga, si spegne in un’agonia crudele, da cui scappo inorridita. E’ celata, ora, al mio sguardo, inghiottita da un anfratto gentile. Resta di lei la scia d’argento, preziosa come le vite inutili. Insensato il mio restare immobile. Ma sento che il sale sta bruciando anche me.

Aglaja

DICEMBRE

Iniziò all’alba a fare pulizia.

Era un dicembre freddissimo, ma spalancň la finestra dello studio e lasciň che piccoli fiocchi di nevischio svolazzassero sulla sua scrivania.

Decise di partire dalle cose più ingombranti e faticose; prese la scala e si arrampicň dagli scaffali più alti. Per un istante, la tentazione di scagliare giù rumorosamente i libri la colse, ma la cacciò subito dalla mente: non voleva fare rumore e disturbare. Scelse con cura i volumi e, poco a poco, li portò sul pavimento, dove li impilò in ordine di autore. Naturalmente non poteva portarli tutti con sé: aveva scartato quelli acquistati negli ultimi anni. Si rese conto di avere scelto quelli che aveva letto tra i quindici e i venti anni, come se in fondo il suo cervello avesse smesso allora la sua evoluzione. Soffiò sul dorso dei volumi, per togliere la polvere: era tanto che non li riprendeva.

Quindi cominciò ad aprire i cassetti. “Spazzatura”, si disse, nel tirare fuori tutte quelle carte. Carta, carta, carta. Solo carta, su cui parole ormai senza significato segnavano un percorso interrotto.  Meticolosamente ripose ogni foglio in ordinate cartelline, alcuni li appallottolava, poi li riapriva e riponeva anche quelli. Solo alcune pagine vennero messe da parte e inserite nei libri impilati.

Scelse poi tre foto tra quelle del mucchio sparso in un capace cassettone, mai catalogate o incollate in un album, e anch’esse finirono tra i libri scelti in precedenza.  Per un attimo pensò di bruciare le altre nel water, ma temeva di svegliare chi stava ancora dormendo: sarebbe stato indelicato, meglio, molto meglio lasciare tutto in ordine.

Aprì il computer: fu la cosa che le prese più tempo, i file da esaminare erano davvero tanti, ma alla fine fu soddisfatta del lavoro compiuto.

Era tutto pulito.

Quando gli altri si svegliarono, la stanza era in ordine. Solo qualche vuoto nello scaffale, ma si notava appena.

Il pc era aperto su una pagina bianca.

Dalla finestra entravano piccoli fiocchi di nevischio che svolazzavano sulla scrivania.

Aglaja

RISVEGLIO

Emerge dal buio ed affonda nella luce.

Il risveglio è lento, il corpo pesante.
Il tepore lo avvolge, stordendolo, i sensi ancora indistinti.
Il ticchettio della sveglia gli pulsa neri disegni geometrici nelle pupille; la monotona sequenza di un ronzio auricolare è polverosa come la luce che filtra dalla persiana.

Tende le gambe, inarca i piedi, allarga le braccia; protegge i suoi gesti allentati col pudore della coperta sgualcita di sonno inquieto.

Piega il capo dalla parte opposta alla finestra, poi si costringe a voltarsi e sfida il mattino. Si tira su di scatto ed è subito capogiro. Serra le palpebre, ascolta la tachicardia che si spegne rassegnata. Guarda i capelli lasciati sul cuscino e li raccoglie, reliquie del tempo che scorre. Li serra un momento tra le dita, li soppesa, come gli anni che si è lasciato alle spalle; poi li lascia cadere – i capelli – a confondersi tra le losanghe del tappeto, mentre gli anni sono già tutti caduti e confusi tra loro.

Si alza, con cautela; i piedi già raggelati cercano le pantofole, gli occhi percorrono la stanza, stupiti, come sempre, di ritrovarla disordinatamente uguale alla sera precedente.

Raggiunge il bagno e svuotarsi la vescica è già catarsi. Peccato spezzare l’incanto con la faccia strapazzata che lo osserva miope in un riflesso al neon.

Entra nella doccia e fantastica di piogge tiepide primaverili e di prati fioriti, mentre la paratia sbilenca lascia inzaccherare il pavimento di acqua calcarea e doccia schiuma prezzo/convenienza.
Colano, dalla condensa sullo specchio, frammenti liquidi di uno sguardo acquoso.
Dovrebbe farsi la barba. Dovrebbe.

Va in cucina.

Caffè.

Un altro, prego.

Un biscottino. Due.
Facciamo tre, all’inferno i trigliceridi.

Si accascia sulla sedia rossa, spaiata dalle altre gialline, ricordo subìto di colazioni diverse.
Nasconde il capo tra le braccia incrociate sul tavolo, mentre non ascolta l’oroscopo del giorno.
Notizie esclusive gli scivolano tra pensieri invasivi.

Trascina polvere e ciabatte fino in camera. Apre l’armadio. Camicie mal stirate gli si propongono per abbinarsi a giacche e calzoni stazzonati.

Si veste.

Sceglie una cravatta da un mucchio selvaggio. Ha una macchia di cioccolato: un’estemporanea consolazione a presa rapida.
Si ravvia dinnanzi allo specchio i corti capelli che ancora resistono.
Dedica ancora una rammaricata prece ai caduti.

Le scarpe.
Sono impolverate.
C’era una spugnetta..il lucido..mah.
Con la spazzola degli abiti prova a dar loro un aspetto dignitoso. Passa e ripassa la spazzola sulla pelle marrone. Passa e ripassa. Neppure si accorge dello staccarsi delle setole.
No, ora se ne accorge. Le setole cadono ai suoi piedi. Come le cravatte.
Come i suoi capelli. Come gli anni.

E’ in ingresso, la mano sulla maniglia della porta.
Si volta.
Scalza dal tallone le scarpe appena infilate.
Scioglie il nodo della cravatta.
Sfila giacca e camicia, slaccia i calzoni.
Va in camera.
Il letto è ancora sfatto. Anche lui.
Si infila sotto le coltri.
Sono ancora tiepide.

Si sottrae alla luce. Affonda nel buio.

Aglaja

REGALO DI NATALE

Raccontino di Natale in salsa zeneise 🙂 A.

Non era stato un regalo di Natale particolarmente gradito né atteso.

Anzi, nella marea di oggetti di poco valore che tra colleghi simpatici o gentili conoscenze o parenti di scarsa frequentazione si era usi scambiarsi, quello gli era addirittura sfuggito, tanto che neppure ricordava chi glielo avesse donato. Forse la vecchia zia Pinin, che conservava tutto in nome dei bei tempi andati. Forse la glamourevole signorina Stimamiglio, del quarto piano, che ogni mattina incrociava mentre portava a spasso il suo barboncino dal perlaceo pelo spumoso e profumato. E se fosse stato il suo collega di stanza, quello schivo ragionier Narciso che, a dispetto del cognome, era un eclatante caso di complessata timidezza? A pensarci, sarebbe stato proprio da lui lasciare un pacchetto senza farsi scorgere, per evitare imbarazzanti e imbarazzati ringraziamenti. Avrebbe però potuto essere il cortese edicolante – sempre deferente e servizievole con lui che, oltre al consueto quotidiano, collezionava ogni sorta di fascicolo con gadget accluso – a decidere di gratificare con quell’omaggio un così buon cliente.

Mah… proprio non riusciva a rammentare in che occasione gli fosse capitato tra le mani, e la mancanza del consueto biglietto beneaugurante di accompagnamento rendeva ardua l’impresa di rintracciarne il donatore.

Proprio non riusciva a comprendere come potesse essergli sfuggito, dal momento che non poteva certo dirsi minuscolo: a dirla tutta, era stato proprio il primo dei pacchetti che aveva deciso di aprire giusto la mattina di Natale, come quando era piccolo e le feste avevano ancora un senso.

Allora sì che scartare i regali era una festa irrinunciabile: che gioia eccitante l’andarne a caccia fin dalla sera precedente, fingendo di dormire per poi avere via libera ed iniziare prima l’attesa di un munifico Gesù Bambino, e poi, più grande, aspettare il momento in cui i genitori avessero finito di sistemare i pacchi sotto l’albero per uscire dal suo nascondiglio e cominciare a scuoterli curioso.

Poi tanti natali erano trascorsi e con loro il tempo e i volti e le piccole felicità che rendono vivi. Intendiamoci: non che la sua fosse una vita grama. Aveva fatto carriera, era ben sistemato, la casa – ereditata dai suoi – era la stessa in cui era nato e cui aveva portato significative migliorie, che l’avevano resa ancora più accogliente. Coltivava, nell’ambito professionale, soddisfacenti relazioni sociali e si concedeva stuzzicanti relazioni d’altro tipo, anche se queste, ormai, sempre più sporadicamente. “Una vita tranquilla”, amava definirla compiaciuto, soddisfatto di sé.

Per quel Natale non aveva previsto nulla di particolare. Sapeva già che, come ogni anno, sarebbe giunto l’invito a pranzo della zia Pinin che, come ogni anno, sotto le feste si rammaricava in special modo per la sorte di scapolone di quel suo algido nipote, il quale, come ogni anno, avrebbe rifiutato – con scuse sempre più improbabili – di essere arruolato in estenuanti tombolate con parenti ormai estranei. In effetti, come ogni anno, aveva già prenotato il consueto ristorantino poco lontano da casa, che, come ogni anno, a Natale, arricchiva il solito menù con portate “esotiche” (la definizione era di Annunziata, la proprietaria, che, assediata dai sempre più numerosi localini etnici che pullulavano nel centro storico, spacciava per tali le ghiotte specialità della tradizione campana).

Tuttavia, il piccolo rito dei pacchettini da sfasciare aveva voluto conservarlo. Sapeva di non poter contare su grandi sorprese, visto che aveva accumulato, per l’appunto, solo quelle quisquilie convenzionali e di routine che a sua volta aveva offerto ai vari conoscenti. Non che non si fosse tolta qualche soddisfazione (e avrebbe voluto vedere, con tutto quello che lavorava!): un nuovo impianto home theater troneggiava già dalla sera precedente in soggiorno, mentre nel cassettone da due settimane riposavano – ancora incellophanate – un paio di camicie finissime, con le cifre del suo nome ricamate tono su tono. Contava anche sul classico oggetto di rappresentanza (il Natale scorso aveva ricevuto una penna d’argento – con il prestigioso marchio della Ditta – che non mancava mai di far spuntare dal taschino della giacca) che il capo del personale era solito inviare ai dipendenti più efficienti e motivati e lui sapeva che anche quest’anno era stato degno di quell’ambìto riconoscimento.

Quella mattina, quindi, si era alzato di buon’ora e, senza neppure poltrire un minuto più del necessario tra le tiepide coltri, era balzato con le gambe ossute fuori dal letto e, a piedi scalzi, era corso all’ingresso del suo appartamento, dove, sopra il tavolinetto dove ogni giorno buttava negligentemente le chiavi di casa e il cellulare, aveva poggiato un minuscolo presepe di peltro racchiuso in un cofanetto di velluto rosso (un regalo della devota zia Pinin, o era ancora della defunta zia Teresitta? Lo aveva scordato). Sotto il tavolino, aveva nascosto, man mano che gli venivano consegnati, tutti i regalini, col proponimento di aprirli solo la mattina di Natale.

Ecco dunque il momento tanto infantilmente atteso (un poco se ne vergognava, ma tant’è…). Il suo sguardo fu immediatamente attratto da un pacchetto sottile ma ingombrante per larghezza, tanto da fuoriuscire di alcuni centimetri da sotto il tavolinetto. Quando lo aveva messo? Non dandosi il tempo di rispondere, lo aveva scartato giulivo, ma era rimasto perplesso ritrovandosi tra le mani una cornicetta di legno semplicissima, che racchiudeva una stampa, no, una foto, anzi, osservandola meglio, neppure una foto: un vecchio dagherrotipo che ritraeva una piazzetta del centro storico della sua città. Al centro dell’immagine, una chiesa sopraelevata rispetto alla strada, alla quale era collegata mediante una ripida quanto scenografica scalinata. L’edificio – dalla facciata stinta e dimessa, nonostante la cupola, i pinnacoli e tre robuste arcate – era infatti collocato su una grande terrazza, con al piano terra varie botteghe. Intorno ad esso, incombevano palazzi alti e addossati l’uno all’altro, dalle persiane alla genovese abbassate. Ciò che colpiva, però, era la desolazione di quella piazza vuota. Sembrava che la foto fosse stata scattata subito dopo chissà quale evento che avesse spazzato via ogni forma di vita. Nessuno che sbucasse dalle botteghe, o si affacciasse alle finestre, o attraversasse la piazzetta, o salisse per i gradini dello scalone, o si incamminasse nei vicoli che si intravedevano ai lati della chiesa. Non un’anima viva.

Rimase qualche minuto ad osservare quell’immagine, rigirando ogni tanto la cornice per cercare, magari sul retro, una dedica, una frase, una scritta qualsiasi che potesse illuminarlo sul significato e la provenienza dell’oggetto. Nulla trovando, lo poggiò nuovamente sul pavimento, dove era rimasta la semplice carta da pacco, senza alcun decoro, con cui era stato fasciato. Iniziò a scartare gli altri doni, fingendo con sé stesso una partecipazione gioiosa che in realtà non provava, continuando infatti ad arrovellarsi su chi poteva avergli fatto quello strano regalo. Un accendino (caspita! la signorina Pittaluga non si era dunque accorta che da sei mesi aveva smesso di fumare!), fermacarte, CD, best seller, cravatte… le solite cose (magari riciclate) che ogni anno riceveva.

Terminato il rito, iniziò a ripiegare con cura la carta degli involucri, ad arrotolare i nastri, a recuperare le decorazioni. Li avrebbe poi depositati in una larga scatola di cartone, nascosta in un ripiano dello stanzino delle scope, in cui conservava quanto necessario per confezionare nuovi regali per il prossimo anno. Mise poi ogni oggetto ricevuto nella collocazione migliore: le cravatte nel “gira-cravatte” a pile (altro dono aziendale di uno dei natali scorsi) chiuso nel suo armadio; i best seller (che difficilmente avrebbe letto: arrivava troppo stanco, la sera, per potersi poi dedicare anche alla lettura) nella bella libreria di noce ereditata dal padre (lui sì, vero e accanito lettore!); i cd nella torre nera accanto allo stereo; i fermacarte in fila (sempre più affollata) con gli altri già ricevuti, su una mensolina d’ardesia del soggiorno. Lo spiritoso accendino a forma di Lanterna – dono della distratta signorina Pittaluga – fu riposto in un cassetto della cucina: se ne sarebbe servito per accendere il gas.

E la cornice con il dagherrotipo? “Che triste”, borbottò tra sé scuotendo il capo. Eppure scelse per essa un’inedita sistemazione: piantò un chiodo con pignola perizia, e l’appese esattamente sopra lo schermo piatto del suo televisore ultra piatto e ultra large. Quindi, andò a prepararsi: si lavò, versò un poco di “Acqua di Genova” – la colonia con cui si irrorava per i suoi rari appuntamenti galanti – sul palmo delle mani e si picchiettò le gote accuratamente rasate, indossò una delle camicie nuove e un completo nocciola elegante, cercò una cravatta che vi si intonasse, infilò il suo paltò cammello, quello che tirava fuori solo per le grandi occasioni, e andò al ristorante di Nunziatina a consumare il suo solitario pranzo di Natale.

Con sua meraviglia, scoprì di essere l’unico avventore, se si escludeva il signor Mario, rimasto vedovo sei mesi prima e da allora cliente fisso mezzogiorno/sera del locale. “Cosa vuole, la crisi..” allargò le braccia Annunziata, ciabattando tra la cucina e la sala. Il pranzo fu comunque squisito e accurato – come sempre, del resto – e la cuoca insistette perché i due ospiti si servissero una seconda volta dal carrello dei dolci (ottimi, ma il pandôçe (1) della zia Pinin un poco gli mancava). “Ed è “a grati”! (2) E’ Natale! Mangiate, non fate complimenti!”, li incitò sorridendo, e furono “a grati” anche il caffè e l’ammazzacaffè (quello speciale limoncello che Nunziatina preparava in casa). Satollo e soddisfatto – sia del pranzo che della spesa – tra i calorosi auguri della padrona e del signor Mario (che parve invece desideroso di fermarsi ancora un poco) decise di tornarsene subito al suo appartamento, essendo la giornata piuttosto rigida.

Fu con un senso di riconoscente rilassatezza che si buttò a corpo morto sulla poltrona davanti al teleschermo, con i numerosi telecomandi già a portata di click. Eppure non accese né l’home theater, né la televisione, né lo stereo, e neppure l’i-pod, la cui cuffietta pendeva dal bracciolo. Il suo sguardo era fisso sul dagherrotipo. C’era qualcosa che non gli tornava. Subito non comprese di che si trattasse, poi, alzatosi per esaminarlo meglio, si accorse dell’anomalia: seduti sui gradini della scalinata vi erano alcune persone, ragazzi, gli parvero. “Saiö abelinòu ?” (3) si chiese ad alta voce (gli capitava, talora, di parlare da solo). “Avrei giurato che non ci fosse nessuno”, rimarcò scuotendo il capo. “Troppo stress”, concluse ragionevolmente, più sottovoce.

Pacificato con sé stesso e con il mondo, si appisolò sulla poltrona, complice la lunga digestione che il suo stomaco chiedeva di poter svolgere con calma, e il tepore della casa (contravvenendo ai suoi princìpi e alle raccomandazioni delle autorità cittadine, aveva regolato il termostato qualche grado in più del consentito). Si risvegliò di soprassalto dopo qualche minuto (o così gli parve). Era sudato eppure tremava di freddo: “Ho mangiato troppo”, si rimproverò. Era buio e dovette accendere l’abat-jour per vedere l’ora della pendola di nonna e verificò che in realtà erano le sette di sera. “Berrettin! (4) non ho neppure fatto una telefonata d’auguri a lalla Pinin (5), povera donna!” esclamò desolato sì, ma non abbastanza da comporre il numero della zia al cellulare. Strisciando i piedi (l’avesse visto quella buonanima di sua mamma, maniaca com’era delle pattine, avrebbe mugugnato senza requie per l’intera serata!) si diresse verso la piccola cucina, sbadigliando rumorosamente e grattandosi negligentemente il capo. Aprì la porta del frigorifero, di cui esaminò – senza vederlo – il contenuto, la richiuse, avvertendo una sgradevole acidità salirgli in gola. “Meglio saltar cena”, si ammonì giudizioso, e ritornò in soggiorno. Qui spense il piccolo abat-jour e accese il lampadario centrale. Fu in quell’istante che ancora gli cadde lo sguardo su quel dagherrotipo. “Ohimemì!”(6) gli sfuggì in un gemito.

L’immagine era ancora cambiata: adesso un gruppetto di persone si intratteneva di fronte a una bottega, come per commentarne l’esposizione. Decise di non dare importanza a quanto aveva certamente solo creduto di vedere, distogliendo immediatamente lo sguardo da quella fotografia e inserendo un DVD nel lettore e mettendo ad alto volume il suo impianto di diffusione. Si addormentò ancora in poltrona e si svegliò solo il mattino seguente. Con le membra anchilosate provò a tirarsi su: si sentiva stanco e preoccupato, la mente confusa. “Fortuna che ho preso qualche giorno di ferie”, si consolò. Andò in bagno, si lavò e si preparò con molta meno cura del giorno precedente. Uscì, incontrando ben poche persone per via. L’aria fresca, tuttavia, gli fece bene. Più rinfrancato tornò a casa e si preparò una minestrina, col proposito di tenersi leggero e di stare lontano, per qualche tempo almeno, dalle prelibatezze di Nunziatina. Dopo mangiato si coricò, certo di aver accumulato troppa stanchezza nel periodo immediatamente precedente al natale. Dormì, infatti, profondamente e, al risveglio, nel tardo pomeriggio, non ricordava alcun sogno che avesse turbato il suo riposo. Evitò di passare in soggiorno e trascorse il resto della giornata in cucina, deciso a fare un po’ d’ordine tra gli scaffali. Per cena, una tazza di latte e biscotti del Lagaccio fu sufficiente a saziare il suo debole appetito e, presa dal bagno una vecchia rivista, la sfogliò prima di riaddormentarsi nuovamente.

Il mattino dopo si sentiva decisamente più regaggïo (7). Dedicò più tempo alla cura della sua persona, si vestì ponendo la consueta attenzione agli abbinamenti, indossò un cappotto grigio scuro, più sobrio di quello cammello, e uscì. Le quattro chiacchiere con la signorina Stimamiglio, le carezze a quella palla di pelo del suo barboncino, il rituale sfogliare i settimanali dal cordiale giornalaio, che gli indicò una nuova collezione di ex voto di Padre Pio da iniziare, lo misero di buon umore. Passò dal rosticcere e si concesse il lusso di due fette di Cappon magro (8): aveva deciso che il suo stomaco poteva riprendere con tranquillità il suo tran tran, ma voleva viziarlo con una leccornia per esso ormai rara (ricordava ancora sua mamma e sua nonna prepararlo dal giorno precedente quello in cui sarebbe stata consumato). A casa apparecchiò nell’angolo da pranzo del soggiorno: tirò fuori la tovaglia di Fiandra dei giorni di festa, il servizio buono di Sèvres (dono nuziale) che i suoi ben di rado avevano adoperato, e persino i fragilissimi calici di Boemia della povera nonna Titti. Mangiò con gusto ed appetito, concludendo con una fetta del pandolce che aveva comprato dalla pasticceria sotto i portici: non sarà stato come quello casalingo della zia Pinin, ma si faceva mangiare, specie pucciato nel vin santo che aveva stappato per l’occasione. Dopo il caffè, fece quello che scientemente aveva rimandato di fare fino a quel momento: si alzò e andò a controllare il dagherrotipo. Era sicurissimo che la visione sarebbe stata la stessa di quando aveva sfasciato il pacco: una chiesa sopraelevata in una piazza deserta.

Le cose, però, stavano diversamente: alcuni uomini erano apparsi sul lato sinistro della piazza, nel caruggio (9) che correva di fianco alla chiesa, altri – dentro i palazzi – avevano alzato le persiane, come per spiare l’andirivieni della via.

Ebbe un lieve mancamento. Si appoggiò per un attimo alla tavola ancora apparecchiata, poi – non sopportando di stare ancora in quella sala – andò in cucina. Come faceva da bambino, chinò il viso sull’acquaio di marmo e bevve avidamente l’aegua do bronzin (10), come gli raccomandava sempre la mamma dopo uno spavento. Rimase stordito in piedi, in mezzo alla cucina. Un chiassoso silenzio gli riempiva le orecchie e il cervello.

D’un tratto si riscosse e con passo deciso si diresse verso lo stanzino delle scope. Tirò giù la scatola delle carte e dei nastri, la rovesciò sul tavolo e prese a frugarvi freneticamente: “Ghe saià ben staeto un biggettin, pe-a misëia!” (11), ma, come già sapeva, non trovò nulla. Ricacciò tutto disordinatamente dentro la scatola, che scaraventò nello stanzino. Andò in ingresso, prese il cellulare e iniziò a fare un giro di telefonate a parenti e conoscenti per capire chi di loro gli avesse mandato quel maledetto dagherrotipo in cornice. Pochi, però, gli risposero: molti avevano approfittato delle feste per recarsi in villa (12), o erano in visita ad amici e familiari. Persino la zia Pinin era introvabile. Chi riuscì a intercettare aveva fretta, o non comprendeva la sua strana agitazione, o lo interrompeva per chiedergli notizie di questo o di quello. Nessuno sapeva nulla di cornici di legno e foto d’epoca.

Tornò in soggiorno.

Mise l’i-pod a stecca, fino a sentire male. Lo spense. Andò a sciacquarsi il viso. Lo asciugò. Prese un grosso volume dalla libreria. Lo rimise al suo posto, senza aprirlo. Si diresse a grandi falcate verso il mega-schermo. Non lo accese. Allungò la mano verso il dagherrotipo. Lo staccò dalla parete. Lo tenne tra le dita senza guardarlo. Poi lo fece.

Altri gruppetti di uomini erano comparsi sulla piazza: piccoli capannelli di persone che parevano chiacchierare animatamente tra loro.

La cornice gli scivolò dalle mani e il quadretto cadde sul vecchio pavimento di graniglia a mosaico. Il vetro che proteggeva l’immagine si infranse con suono acuto di rimprovero.

Faceva freddo, in quei giorni. Tirava una tramontana che persino le navi nel porto non riuscivano ad attraccare. Andò in camera e dal fondo dell’armadio tirò fuori un vecchio cappello di feltro di suo padre: lo sapeva caldo, e di calore aveva bisogno in quel momento. Aprì la porta d’ingresso e uscì.

Quando, qualche tempo dopo, non avendo più avuto sue notizie al lavoro, lo vennero a cercare in casa, trovarono l’uscio ancora spalancato e l’appartamento deserto, come abbandonato in fretta e furia. La zia Pinin, che aveva accompagnato i carabinieri alla casa del nipote, raccolse il dagherrotipo ancora sul pavimento, tra i vetri infranti. “Di cosa si tratta, signora?” la interrogò il maresciallo con garbo inquisitorio. “Ninte, ninte, – rispose la vecchia asciugandosi, col dorso della mano increspata di anni, gli occhi nebbiosi di lacrime e ricordi – o l’ëa o presente ch’aveivo faeto a mae nevo pe’ Dënâ. A l’è unna vegia fotografia da ciassa Banchi, donde seu baccan gh’aveiva o scagno” (13). “Sciâ mïae – continuò – o poae o l’è sto chi: mae nevo o l’ëa paegio!” E indicò l’ultima figura apparsa sul dagherrotipo: un uomo ripreso di spalle, a gambe leggermente divaricate, le braccia appoggiate sui fianchi, come a scrutare la piazza davanti a lui.

Sul capo, un cappello di feltro. Caldissimo.

Aglaja

NOTE

(1) pandôçe in genovese: pandolce

(2) E’ “a grati”! : è “gratis”!

(3) “Saiö abelinòu?” in genovese: “Sarò (diventato) stupido”?

(4) “Berrettin!” eufemismo genovese (sostituisce l’esclamazione più volgare “Belin!”): “Ca..spita!”

(5) lalla Pinin in genovese: zia Giuseppina

(6) “Ohimemì!” in genovese: “O povero me!”

(7) regaggïo in genovese: arzillo

(8) Cappon magro è una sorta di polpettone di pesci ed ortaggi, legato con salsa verde – spesso con della gelatina – e posto su gallette da marinaio bagnate d’acqua e aceto, guarnito con scampi e gamberi.

(9) Caruggio in genovese: tipico vicolo stretto del centro storico

(10) l’aegua do bronzin: l’acqua del rubinetto

(11) “Ghe saià ben staeto un biggettin, pe-a misëia!” in genovese: “Ci sarà ben stato un bigliettino, per la miseria!”

(12) in villa in genovese: la casa fuori città, solitamente nell’entroterra di Genova

(13) “Ninte, ninte, o l’ëa o presente ch’aveivo faeto a mae nevo pe’ Dënâ. A l’è unna vegia fotografia da ciassa Banchi, donde seu baccan gh’aveiva o scagno” in genovese: “Niente, niente, era il regalo che avevo fatto a mio nipote per Natale. E’una vecchia foto di piazza Banchi, dove suo padre aveva l’ufficio”.

(14) “Sciâ mïae, o poae o l’è sto chi: mae nevo o l’ëa paegio!” in genovese: “Guardi, il padre è questo qui: mio nipote era uguale a lui!”