Bozzetti

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DAL CONCESSIONARIO

– Buongiorno, signora, desidera?

– Buongiorno, vorrei una personalità nuova

– Ha già in mente qualcosa?

– Sì, mi piacerebbe sicura di sé, carismatica, cinica quel tanto che basta per non rimanere mai a terra..

– Ho proprio il modello che le interessa: cambio comportamentale automatico e pensieri sequenziali, trazione a sé integrale, alimentazione dell’ego costante, sospensioni del giudizio ben calibrate. Ha un controllo di sé perfetto e una tenuta di opinione a prova di sbandamenti. E poi è una full optional: alza barriere elettrico, tergilacrime a tre velocità, coscienza decappottabile che sparisce all’occorrenza. E la linea! Non si può non rimanerne affascinati: la sua aerodinamica la rende sfuggente al controllo altrui e perciò assolutamente desiderabile.

– Davvero notevole. Ma il consumo?

– Consumo di sentimenti irrisorio, risparmio di nervi assicurato.

– I costi?

– Beh, signora, comprenderà che una personalità di questo livello ha dei costi piuttosto elevati..

– Mi rendo conto. Quanto elevati?

– Diciamo che, con un ragionevole anticipo di egocentrismo, se la può cavare con una decina di persone calpestate in comode rate.

– Interessante. Avrei però una conditio sine qua non: il ritiro dell’usato.

– Vediamo, lo dovrei valutare..

– L’ho qui con me, l’osservi: è una personalità vecchio modello, ma comoda e confortevole per essere usata dagli altri. Certo, ha qualche bottarella, ma..

– Ma signora! Alla faccia di “qualche bottarella”! E’ tutta ammaccata, non vede? E poi, andiamo! Guardi tutta la strada che ha percorso: l’ha completamente usurata! Questi modelli, poi, consumano tante di quelle emozioni che occorre farne il pieno continuamente. E la linea! Non lo sa che lo stile ciabatta sfondata non lo vuole più nessuno? faccia poi sentire l’impianto di diffusione.. non ci siamo neanche qui: ha pochi canali e il suono è distorto. Insomma, signora: capisce bene che un relitto simile non posso certo ritirarglielo, mi rimarrebbe sul groppone, non ha mercato!

– Ma se non me lo ritira non posso permettermi di acquistare una nuova personalità!

– In tal caso non posso aiutarla, signora, benché..

– Benché?

– Benché un consiglio posso sempre darglielo..

– Mi dica.

– Porti comunque la sua attuale personalità dallo sfasciacervelli: andare in giro con un simile rottame è pericoloso per sé stessa e per gli altri.

– Seguirò senz’altro il suo consiglio. Arrivederla.

– Addio.

Aglaja

L’UOMO GRIGIO E SOTTILE

Lo notò per prima una signora robusta, non giovane ma neppure vecchia, i capelli rossicci con ampia ricrescita bianca, malamente trattenuti sulla nuca con una pinza nera. Non era stato difficile notarlo: del resto erano solo loro due, nel lungo pomeriggio afoso, seduti in quella saletta dalle sedie sgangherate di metallo, fuori dal reparto di diagnostica per immagini. Lui stava appollaiato sul bordo, quasi sentisse il freddo di quella seduta poco accogliente penetrargli nelle ossa del bacino, appena protetto da grigi calzoni lisi e poca carne. Dopo aver vanamente cercato di distrarsi con una rivista vecchia di molti mesi (nel frattempo la coppia in copertina era scoppiata e il governo caduto), la signora si alzò in piedi e cominciò a passeggiare nervosamente finché sbottò: “Ma insomma! Quanto lo tengono?”. Era evidentemente una domanda fatta tra sé e sé ma ad alta voce, non potendo più l’ansia contenersi nei pensieri. Normalmente sarebbe caduta nel silenzio, magari accompagnato da un’occhiata di comprensione o di fastidio, avrebbe tutt’al più guadagnato una di quelle brevi esclamazioni sospirate da chi condivide analoga attesa, un “Eh…” o un “Già…” oppure, scialando, un “Bisogna avere pazienza” o un “Vedrà che tra poco esce”. Invece quel signore sottile e grigio si levò, sciogliendo il suo corpo alto e sgraziato da quell’accartocciamento di fortuna e portandolo a fianco della signora robusta. Si chinò leggermente verso di lei e, con voce grigia e sottile, le chiese: “E’ molto che aspetta, signora? Chi sta attendendo, se posso permettermi?”. La donna si girò verso di lui e ne incontrò lo sguardo, trovandovi sincera partecipazione. “C’è mio marito, lì dentro” si decise a rispondergli “E’ più di un’ora che lo hanno portato a fare la TAC e ancora non è uscito” e finalmente tutta la preoccupazione che aveva trattenuto dietro le palpebre pesanti e il viso gonfio, si sciolse in parole: dopo quella frase, infatti, la signora raccontò – senza ulteriori sollecitazioni da parte dell’uomo – i malori che via via negli ultimi tempi si erano sempre più spesso presentati al marito, che proprio quella mattina si era accasciato in ufficio, senza un lamento, ed era stato portato subito in ospedale dove stava facendo i primi accertamenti. La donna stava ancora parlando, quando le porte della sala diagnostica si aprirono e ne uscì in barella, spinto da due infermieri, suo marito. Ella gli si precipitò a fianco, gli afferrò la mano ed iniziò a parlargli con concitata dolcezza, camminando, chinata su di lui, fino all’ascensore che lo avrebbe riaccompagnato in sala medica. Poi, come un lampo, le balenò l’immagine di quel signore grigio e sottile con cui stava parlando fino a pochi minuti prima e si girò per salutarlo, ma il suo sguardo trovò solo la sala d’attesa vuota.
Un’altra volta fu avvistato nel corridoio di oncologia. Questa volta indossava una tuta grigia, che metteva in risalto la magrezza ossuta e allampanata del suo corpo. Camminava su e giù in quell’antico viale di marmo, dalle altissime volte e dalle immense vetrate appannate dal tempo e dall’incuria, sul quale si affacciavano le grandi porte bianche che portavano alle diverse corsie. Si muoveva senza fretta, con quelle gambe lunghe e sgraziate, trascinando i piedi magri, protetti da improbabili calzini bianchi e ciabatte da mare rosse. I suoi occhi avevano uno sguardo strano, come se si accendessero di interesse a intermittenza, per poi ripiombare in un’espressione assente. In quel corridoio erano disseminate, proprio sotto le vetrate opache, dalle quali si stentava ad intravvedere un antico giardino esterno, le solite sedie di metallo, su cui si lasciavano cadere pazienti attaccati a flebo che facevano scivolare accanto a loro, oppure parenti in visita che mascheravano l’inconfessata noia, giocando col telefonino o leggendo giornali spiegazzati, lasciando che parole inascoltate o sentimenti simulati facessero da refolo all’indifferenza. Altri, invece, pazienti o visitatori che fossero, si abbandonavano allo sconforto, lasciando che le lacrime rotolassero sulle guance come macigni sull’anima. Non tutte le sedie rimanevano occupate a lungo e l’uomo sottile e grigio, appena ne vedeva una vuota, l’occupava subito, sedendosi sul bordo in quel modo bizzarro. Rimaneva in silenzio, ma non appena qualcuno accennava a lasciar cadere un’osservazione, un sospiro, uno sbuffo, un lamento, ecco che subito interveniva, con quella sua vocetta grigia e sottile, mostrando un genuino interesse che convinceva l’interlocutore a lasciarsi andare allo sfogo: “Sono giorni che la tengono in osservazione…”, “Sapessi almeno quando… SE potrò riportarmela a casa…”, “Ormai non capisce più niente”, “Dopo sette anni, capisce? Eppure avevano detto…”, “A questo punto spero solo che muoia, che Dio mi perdoni…”, “Mio figlio, mio figlio… aveva detto che sarebbe venuto, ma…”, “…e poi ha cominciato a gonfiarsi la gola…”, e via raccontando. Il signore grigio e sottile annuiva o scrollava la testa in segno di approvazione o di sconforto, lasciando intendere che potesse comprendere ed immedesimarsi in quanto gli veniva confidato. Poi capitava che il paziente venisse richiamato in corsia, o il parente potesse finalmente interloquire coi medici, o il visitatore dovesse congedarsi. I saluti allora erano frettolosi, ma tutti riferirono più avanti che quell’uomo (ma chi era? Un ammalato? Un infermiere? Un familiare? Ripensandoci, di sé non aveva rivelato nulla) pareva essere inghiottito dal corridoio, tanto si dileguava velocemente.
Molti affermarono di avergli parlato in neurologia, altri in attesa della risonanza magnetica, alcuni sostennero di averlo visto uscire (o entrare) da terapia intensiva. A volte in tuta, altre con un impermeabile senza cintura, in alcune occasioni in giacca e cravatta, in altre con jeans logori e maglietta grigia, talvolta con scarpe impolverate, talaltra con ciabatte da mare rosse. Più spesso lo si vide nella sala d’attesa del Pronto Soccorso. Lì capitava di notte, soprattutto, quando il silenzio della strada adiacente l’ospedale era straziato dall’urlo delle ambulanze. Ma non tutti arrivavano con l’ambulanza: molti giungevano sorretti da un congiunto o da un amico, chi tamponando ferite, chi premendo una borsa del ghiaccio su qualche botta, chi reggendosi a delle stampelle, chi arrancando penosamente, chi vomitando, chi urlando, chi piangendo. Il signore sottile, grigio come la giacca che gli pendeva dalle spalle gracili, era lì, stringendo tra le dita lunghe e gialle, un bigliettino numerato, come attendendo di essere chiamato per il proprio turno. Se la sala d’attesa era gremita, camminava instancabile, eppure visibilmente sfinito, tra lo sportello del triage e la porta della sala medica, intercettando domande, richieste, dubbi, sconforti e restituendo ascolto e solidale attenzione. Nelle notti in cui, invece, le sedie di metallo rimanevano semivuote, si portava vicino alle macchinette che distribuivano lunghissimi caffè ristretti, gasatissime bevande ghiacciate e freschissimi snack senza scadenza. Lì, prima o poi, capitava qualche giovanissimo dottore un po’ spaesato, qualche infermiera coi capelli curati e gli occhi stanchi, qualche ferito col sangue che già iniziava a raggrumarsi, qualche genitore ancora sconvolto per la tragica imbecillità del proprio figlio. E nell’assenza di suoni di quell’angolo ristoratore, appena violato dal ronzio delle macchinette, pareva più facile scambiare due parole con quell’uomo silenzioso eppure così partecipe, così empatico che riusciva naturale lasciare pezzi di sé al suo ascolto.
Poi, una mattina, un addetto alle pulizie, entrando nel bagno dei visitatori di cardiologia, trovò un mucchietto di ossa con una tuta grigia impregnata di orina e delle ciabatte da mare rosse scivolate via. Chiamò subito soccorsi, ma l’uomo grigio e sottile era ormai morto da diverse ore. Era senza documenti e non fu facile risalire alla sua identità: pareva che nessuno lo conoscesse, anche se molti asserirono di averlo visto molte volte, anzi che spesso avevano parlato con lui. Però – solo ora sembravano farci caso – egli di sé non aveva mai detto nulla, né mai aveva rivelato la propria identità e tantomeno i suoi sentimenti.
Qualche mese dopo, una donna, entrando negli uffici della questura, denunciò la scomparsa del proprio padre: “Sì, era qualche tempo che non lo vedevo, cosa vuole, una ha da fare, non può mica star dietro a tutto, no, non so cosa indossasse quando è uscito dal suo appartamento, no, non ho guardato nell’armadio, sa, da quando è morta mamma, ha sempre preferito arrangiarsi da solo, del resto, sa, io vivo lontana, ho i miei problemi a cui pensare, però sì, mi ricordo che gli piaceva vestirsi di grigio…”.
Aglaja
LA PADRONA
Cinquant’anni, ma è ancora una bella donna.
Pare un fotogramma di un film dell’Italia buona del dopoguerra, quelli con le robuste levatrici, le bersagliere, il pane, l’amore, la fantasia. E’ alta, bruna, occhi verdi dal taglio obliquo, lineamenti marcati, un grande seno che il busto spinge prepotente dalle ampie scollature dei suoi abiti. Suoi in tutti i sensi: lei li ha disegnati (mai imitando, per sè, le firme della moda, ma sempre seguendo il suo gusto personale, di un’originalità che avrebbe meritato, forse, scenari diversi da quelli della piccola città di provincia dove vive, clienti diverse da quelle ridicole e pur pretenziose signore che deve accontentare), lei ha scelto le stoffe (toccandole, accarezzandole, palpandole, come un’amante sfiora e fa sua la pelle e il corpo dell’amato) lei li ha cuciti (ma solo quelli che indossa: da tempo, invece, quelli delle clienti li cuciono le lavoranti), lei li indossa (con un fare da regina un tempo orgoglioso, ora quasi patetico).
Abita in una casa appena fuori dal centro, al piano terra. Una porta scura e pesante, tra le scale e il largo portone, introduce in un ingresso quadrato, su cui si aprono le tre stanze principali dell’appartamento. La più grande è un bel salone, illuminato da un lampadario a gocce, che trasforma i raggi del sole, che filtrano dalle persiane sempre abbassate, in bagliori arcobaleno, riflessi – come un caleidoscopio – dai tre grandi specchi che coprono le pareti. Qui la padrona riceve – su appuntamento – le ospiti/clienti, che provano gli abiti, bevono il tè, servito in fragili tazze di porcellana, appoggiate su un tavolino basso tra due ampie poltrone a fiorami, pescano ovetti di cioccolata da una ciotola di cristallo, si baloccano con una gondola, dove, al suono di un singhiozzante carillon, gira a scatti una ballerina in tutù. Sul parquet un grande tappeto e, a pancia all’aria, la “Bimba” (l’ha chiamata così) della padrona, una vecchia bretton bianca e arancione dagli occhi ciechi, indifferente all’andirivieni delle signore.
Da una porta mai chiusa si intravede, invece, nella penombra, la stanza in cui dorme, dove troneggia un maestoso letto di legno, dai pesanti decori, i doppi materassi di lana, così alti da far sembrare un’arca quel talamo deserto, coperto da un copriletto di raso lucido dai ridondanti volants. E’ così grande quel letto, così eccessivo, che riempie di sè l’intera stanza, così che non noti l’armadio scuro e bombato, i comodini striminziti carichi di immaginette sacre racchiuse in piccole cornici d’avorio.
La terza stanza la senti, prima di vederla. Un rumore meccanico e incessante di macchine da cucire azionate dai pedali messi in movimento dai frenetici piedini delle lavoranti. Sovrapposto ad esso, la voce di una radio antica, che trasmette canzoni e parole che illudono di compagnia. Lì dentro c’è un odore particolare, umano e animale, un afrore che viene dalle pellicce, dalla lana, dalle stoffe, ma anche dalla pelle smorta e dal fiato delle tre signorine invecchiate lì dentro, estate e inverno in quella cameretta, la cui finestra dà sul vuoto e dove, perenne, biancheggia gelido un neon. Sulle stoffe bellissime, corrono segni misteriosi, azzurrini, tracciati dalla padrona con rapidi gesti e un gesso dalla grassa consistenza, un magico ciottolo azzurro, che suggerisce dove tagliare, dove cucire, dove allargare.
E mentre le tre lavoranti tagliano, cuciono, allargano, e mentre la padrona serve il tè, e mentre le signore provano e riprovano i vestiti, e mentre la Bimba si morde compulsivamente una zampa, viaggiano le chiacchiere, da una stanza all’altra e le malignità rimbalzano e si tagliano, si cuciono, si allargano sugli assenti di oggi, che si rifaranno sicuramente, domani, sui presenti di ieri. Ma nel laboratorio, protagonista assoluta della malignità vendicativa delle signorine, è proprio la padrona. Dieci, cento, mille volte si rievoca la sua storia, ogni volta aggiungendo nuovi particolari, non necessariamente veri e tuttavia verosimili, in quel quadro volgare e unto che la rappresenta. Volgare, come i personaggi della storia di cui è protagonista. Unto, come la carta in cui il prosciutto, che si vendeva nel negozio del signor Luigi, veniva avvolto…
Colei che oggi si atteggia a “maestra d’atelier”, era una ragazzina di quindici anni, quando la madre la mandò a bottega dal signor Luigi. Era una salumeria straordinaria: un grandioso bancone di marmo con formaggi grassi e odorosi, lardo che si scioglieva da grossi blocchi candidi, cilindri di latta i cui taglienti coperchi sollevati mostravano olivone verdi e olivette nere in salamoia, tonno rosa/beige annegato in olio paglierino, un po’acquoso. A lato del banco, vi erano ampie vasche, dai rubinetti sempre aperti, in cui giacevano candidi baccalà. Forme gigantesche di grana, intere o sventrate, salumi di ogni tipo da affettare, barattoli di conserve di pomidoro riempivano gli scaffali; pacchi di pasta secca e riso in sacchi di juta si appoggiavano alle pareti, mentre dal soffitto pendevano ganci di ferro che reggevano maestosi prosciutti con l’osso e grappoli di stoccafissi irrigiditi. Un sentore di opulenza che stordiva lo stomaco e i sensi, che ti metteva voglia di abbandonarti alla golosità del vivere, all’indigestione del godimento.
La nuova giovanissima commessa si adattava perfettamente a quell’ambiente: la sua carne bianca, abbondante, profumata, morbida, sembrava nata per essere gustata con gli occhi e assaggiata, infine, dal generoso signor Luigi, avvolto in un grembiale sempre immacolato. Luigi era generoso nell’offrire tocchi di parmigiano ai bambini, larghe fette di mortadella alle mamme, cordialissimi sorrisi alle nonne e grandi ammiccamenti complici agli sventurati mariti che portavano i pacchi. Generoso anche di insegnamenti verso quella ragazzetta-donna, che da lui imparò – nel retrobottega, appoggiata a barili e scatoloni – cosa potesse celarsi sotto un grembiale immacolato…
Luigi fu generoso con lei anche in seguito, regalandole, dopo qualche anno di esplorazioni nel retrobottega, un appartamentino dove potesse tagliare e cucire vestiti (era la sua grande aspirazione, il sogno segreto) e dove, soprattutto, potessero incontrarsi con comodo, lontano dalle malelingue salmistrate che già sibilavano arricchite verità. E fu sempre la generosità di Luigi a spingerlo a promettere alla giovane amante di sposarla, non appena, naturalmente, sua moglie fosse mancata, poverina, annientata da quel suo cuore fragile che tanto la faceva tribolare… La ragazza, in pochi anni, messi a frutto il suo talento e i soldi del generoso Luigi, divenne una sarta molto apprezzata, la padrona di un atelier piccolo, ma frequentato assiduamente da quelle stesse signore che mai l’avrebbero invitata nelle loro case perbene. Questo, però, non le importava più di tanto: in fondo erano manichini flaccidi, che esistevano solo indossando le sue creazioni. La padrona per molto tempo aspettò che il triste fato della moglie di Luigi si compisse: ogni sera pregava, inginocchiata davanti ai suoi santini (adattava una sua certa devozione ingenua ai propri interessi), affinchè il Cielo si prendesse quella povera donna, mettendo fine alle sue tribolazioni. Nel frattempo, la domenica sera e in qualche altra occasione, il signor Luigi provava con lei la morbidezza di quel grande letto che li accoglieva complice, e che conservava, al mattino, il vago odore gastronomico di lui e il costoso profumo francese di lei.
Gli anni sono trascorsi, lentissimi e implacabili nel loro non ritorno. La padrona ha conquistato un’improbabile rispettabilità, che viene dalla maligna compassione che suscita ormai nelle clienti. Il signor Luigi ha ingrandito la salumeria, trasformandola in una moderna rosticceria specializzata in monoporzioni (generose) per single. Fra le tante commesse del suo negozio, ve n’è una molto giovane, ma ben messa, che spesso lo aiuta a mettere ordine nel retrobottega. Il grande letto di legno nella camera in penombra ha visto sempre meno la sagoma del salumiere disegnata sui grandi materassi di lana. Anzi, ora è molto che quell’afrore di salumi e formaggi non si mescola più allo Chanel. Solo una cosa non è cambiata: la padrona prega sempre, devotamente, ogni sera. Ma, adesso, supplica il Cielo perchè la moglie del signor Luigi, povera donna, sopportando cristianamente le sue sofferenze, viva a lungo. Molto a lungo…
Aglaja
IL TRITTICO DEI DISEGNI MARINI:
1) UN ATTIMO PRIMA 
Un attimo prima.
Solo un attimo prima, attraversava le nuvole, splendeva la sua vita nel sole come le ali d’acciaio che lo portavano. Solo un attimo prima, pensieri sonori e figure invisibili lo illudevano di compagnia: un rivivere istanti passati, un pregustare situazioni future. Solo un attimo prima, si sentiva invincibile: una figura mitologica metà uomo e metà albatro, velivolatile futuribile, principe dei nembi, Icaro vittorioso, Ulisse oltre il mito e le colonne d’Ercole, il dominatore dell’aria che sorvola il mare, possedendolo.
Poi, improvvisamente.
Poi, improvvisamente, il rombo che diviene singhiozzo, la luce che arriva da un angolo illogico, l’orizzonte che si capovolge, la quiete prevedibile che diviene orrore imprevisto. Poi, improvvisamente, il fragore di parole insensate e razionalissime, di calcoli azzardati ed inutili, di grida mute, di bestemmie, di preghiere, di balbettii infantili. Poi, improvvisamente, l’azzurro che si confonde in altro azzurro, la gola che si serra, il buio negli occhi, il silenzio assordante della fine.
Un attimo dopo.
Un attimo dopo, la percezione di un altro elemento, di un altro tempo, di un altro sé. Un attimo dopo, un eterno presente incomprensibile, affollato di domande insolute, disturbato da immagini e suoni distorti che vengono da un altrove non più proprio. Un attimo dopo, creature inconosciute lo circondano, come ad accoglierlo e consolarlo.
Ora.
Ora è lì da molti anni. A volte si allontana da ciò che resta del suo gabbiano d’acciaio (una gabbia acciaccata), più spesso gli gironzola intorno nella disperata illusione di poterlo riportare tra le nubi, e lui tra gli uomini. Ora, come un pesce muto, dialoga coi pesci e osserva la danza delle creature del mare. Ora, quando non visto incontra un viaggiatore degli abissi, non udito gli chiede sempre, indicando la volta marina: “E’ questo il cielo?”.
Aglaja
2) LEGGERA E’ LA GRAZIA 
No, io non canto né incanto col mistero della mia voce.
Non seduco marinai e naufraghi con malìe di note soavi.
Non attendo in agguato i naviganti né mi nutro della loro debolezza.
Non accompagno con flauti o cetre melodie ingannevoli di promesse d’amore.
Non nascondo con timbro cristallino i gemiti di chi cade tra le mie braccia.
Io danzo.
Nascosta, non vista, imprevista, io danzo nel silenzio degli abissi.
Io sola avverto il ritmo di quel suono arcano.
Io sola ho in me il segreto della sua musica.
Et un, deux, trois… Et un, deux, trois… Demi pliè, la grand pliè, le pas jetè, la pirouette, le rond de jambe…
Piccola creatura immaginata tra creature marine, fluttuo luminosa dove la luce è luminescenza.
E danzo, danzo per l’eternità, creo colori e invento correnti, scopro sguardi e regalo sorrisi, gentile e leggera.
Perché leggera è la grazia, e, per la grazia, io vivo.
Aglaja
3) LA LETTRICE
Camminava ormai da diverse ore, scalza, su quella spiaggia. Lo faceva spesso, portando con sé una sciarpa leggera e pensieri pesanti. E un libro. La via di fuga. Camminava, e poi si lasciava cadere sfinita sulla sabbia, permettendo alle onde gentili di accarezzarle i piedini e l’anima. Poco importa se i lembi della sua lunga veste si infradiciavano di mare e male, quel mare in cui lo sguardo si perdeva, quel male in cui se stessa si perdeva. Nella sua mente echi di parole cattive, riflessi di momenti insopportabili. L’unico modo per sfuggirvi era cercare un altrove, sulla riva del mare, casa senza pareti e porte, all’interno di un libro, viaggio in vite diverse e possibili. Ecco, il libro era il suo tappeto magico, la sua barca senza remi che, discreta, la traghettava verso la libertà. Fu leggendo che si addormentò. Sognò una vita senza più maschere, dove le frasi dette avevano finalmente il sapore della verità, dove il calore dell’amore potesse cacciare il gelo dell’indifferenza. D’un tratto ebbe la consapevolezza di essere entrata nel suo altrove, tra le pagine della storia narrata (la sua?), in una dimensione nuova e nota ad un tempo. Si intrise di luce e quiete, finalmente. Sulla sabbia, qualcuno, tempo dopo, trovò una sciarpa leggera. E l’ombra di un sorriso.
IL RAGAZZO COI PATTINI A ROTELLE
Kjhòsoihjòsjhòrohislgkhfhgiujtojkòlkvnbkjhbwoiuthpwoirtjhlknvfblksdfghj
La bellezza sono queste lettere.
Brillano, ciascuna con un proprio colore e una propria luce. Sfavillano, a volte a intermittenza, a volte sfumando in un alone, che le proietta e le fonde alla lettera successiva.
Dicono che non sappia usare le parole, che non le comprenda, che le lettere non formino un senso compiuto quando le soffio fuori con il fiato, che sussurra, o con il pensiero, che urla.
Mentono.
Lkjflkncasdpofityhasderubnblkdjfhiwunbslkòdfjhènpeotuyhpiujbvnòdflgjiò
Le parole sono queste lettere.
Io le accarezzo con un sospiro amorevole, le vesto con un gorgoglio di soddisfazione, talora di pena, perché mi commuove la loro bellezza e provo dolore nel vederla/sentirla così fugace e nuda.
Dicono che sia malato, che non sappia ascoltare chi mi parla, che neppure mi accorga di chi mi è vicino, che ogni mio gesto sia insensato, incomprensibile, come le parole che non dico.
Non capiscono.
Jdlfguqpirghàòmmcvnlsdufhtwueahgpuerywkjndnhblòsikjhnwlkjhfpbiòkj
La memoria sono queste lettere.
Io ascolto, vedo tutto. E nella mente conservo tutto, come conservo le parole in teche trasparenti come il filo del ragno, luminescenti come la bava della lumaca, impalpabili come le nuvole che fisso ogni giorno, e da cui piovono le mie lettere di luce.
Dicono che viva in un mondo tutto mio, isolato dagli altri, perso in vuoto da cui mai sono uscito, incapace di provare emozioni, affetti, empatia, odio, ira, allegria, ilarità. Amore.
Ignorano.
Ksdyrangjgòoljhawrthnarfhloifòaigypuerhgnakjbnòlsujhpiahbvsknbligh
I miei sensi sono queste lettere.
Ogni lettera ha un senso. E’ una musica. Un rumore. Un viso. Un gesto. Uno sguardo. Un luogo. Un fiore. Un sasso. Un viale. Un profumo. Uno schiaffo. Una spinta. E il gusto del cioccolato, del latte, del sangue.
Dicono che il mio sguardo sia cieco, il mio volto inespressivo, il mio cuore gelato. Che ripeta gli stessi gesti, percorra la stessa strada, avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro.
Non vedono.
Mjgaòdlturtmnsqekufgaaglhfòwoerihgjeghaòiorfhgkjblkjhgoiurywoiahz
Avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro. Su e giù per questo viale, i pattini ai piedi, volo, mi fermo, atterro, mi siedo, parlo, canto, in silenzio, riparto, volo, cado, mi rialzo, parlo, canto, ascolto, vedo. Le lettere con me.
Le mie lettere, oggi, si sono accese su una donna. L’ho incrociata tante volte, in questo viale. Sul triciclo, barcollando, sui pattini. Quando ero più piccolo. Ieri. Domani. Mai. Sempre.
Ma oggi lei ha visto le mie lettere. Le ha viste, nel breve, lunghissimo istante in cui splendevano in me.
MihaiguardatonegliocchiTihoguardatanegliocchiHaivistoHaicapitoSonoioleletteresonoio
Aglaja
pattini
IL FISCHIO E LA LUNA
La salita era faticosa.
La creuza assolata, in quel giugno arido e polveroso, sembrava non finire mai. Gli alti muri che la delimitavano non impedivano ai profumi intensi delle piante nascoste di liberare nell’aria rovente la loro dolcezza sensuale. Un’esplosione di colori disegnava tra le pietre mosaici di fiori rampicanti, protesi a spiare sia gli orti celati che i rari passanti. Tra i grigi sassi marini, opachi di sale e di anni, ai bordi dei larghi e bassi gradini di mattoni, consumati al centro dai passi di diverse generazioni, guizzavano lucertole agili e beffarde, mentre, nascosti nelle fessure delle muraglie, i gechi si immobilizzavano prudenti. Controluce brillava la scia argentea di qualche lumaca bavosa, di cui, una tantum, la spirale di un guscio fragile e vuoto testimoniava la fine.
La luce era abbagliante.
Una parete bianca di gelsomini odorosi ne catturò la vista, dopo l’olfatto. Si chiese se davvero il sole potesse rifrangersi sui piccoli petali candidi per ferire di più i suoi occhi velati di calore e sfinimento. Mentre sostava per riflettere e riprendere un soffio di quel fiato che sempre più spesso mancava, udì un fischio. “Un merlo”, pensò subito, forse per l’acutezza melodiosa di quella nota sospesa. Un breve silenzio, poi il fischio si levò nuovamente. Era più prolungato, adesso, più insistente. Più imperioso, si sarebbe detto. Benchè la curiosità mordesse, decise di proseguire oltre. Con un sospiro si incamminò nuovamente, ma non aveva neppure poggiato il piede sullo scalino successivo che il fischio si sentì ancora, più alto, più stridulo. Più disperato, si sarebbe pensato. “Un uccello in gabbia”, ipotizzò istintivamente, pur ammettendo che era un suono strano, diverso da altri canti di uccelli che aveva udito in precedenza. “Forse non è un uccello”, considerò, riflettendo ulteriormente, di nuovo arrestando il suo cammino.
Il sole era inesorabile.
Sentiva i vestiti appiccicati alla pelle, il sudore colare copioso, salino negli occhi brucianti. Perchè rimanere fermi sotto i raggi infuocati per ascoltare qualcosa di estraneo, che il buon senso suggeriva di ignorare? Il fischio urlò per la quarta volta il suo richiamo. Da dove proveniva? “Questa è la prima cosa da appurare”, si disse. Alzò lo sguardo, ma solo i cocci di vetro della muraglia, attraversati dal sole o coperti da fiori e foglie, delimitavano il confine tra la creuza e l’azzurro sfacciato del cielo. Tuttavia, poco più in là, seminascosto quasi con pudicizia da un rigoglioso rampicante, un cancelletto dalle strette lance di ferro arrugginito, offriva un’insperata visione – seppure parziale – dell’ “oltre”.
L’orto era abbandonato.
Anche il giardino sembrava oramai una disordinata rivincita della natura sull’uomo. Non c’erano più aiuole, ma i cespugli, i fiori e i rovi facevano tutt’uno con gli alberi dei limoni, che ancora tendevano orgogliosi i propri rami al cielo. Appoggiandosi al cancello, si accorse che cedeva al suo peso, aprendosi in un cigolio che quasi sembrò invitare il fischio a rispondergli. E infatti il fischio rispose, come rinvigorito, come ripreso, riacciuffato da una speranza creduta vana e ora più vicina e reale. Decise di entrare, con lo stupore consapevole di un gesto sconosciuto a sè. Districò il suo avanzare dall’erba alta e secca. Si avvicinò a una casa bassa, le poche persiane rimaste con i listelli staccati, l’intonaco bianco scrostato, la porta divelta dai cardini, ma appoggiata al muro accanto all’apertura. Un raggio entrava nel buio dell’ingresso e un cuneo di luce illuminava un pulviscolo di terra e moscerini.
Il fischio era sempre più forte.
Aveva il cuore in gola, ma sapeva di dovere entrare ed entrò. Subito non vide bene: gli occhi stentavano ad adattarsi, dopo il bagliore esterno. Poi, dal buio, iniziò ad emergere una luna piena. Anzi, no: una sferica lanterna di carta di riso. Ma nemmeno: era un viso! Un viso pallidissimo, quasi polveroso, un’ombra bianca e tonda, con gli occhi chiusi e le labbra strette a cuore, spinte avanti come per dare un bacio. Da quell’ombra, da quelle labbra partiva il fischio che, anche ora, continuava dolce, insistente, implorante.
Adesso vedeva bene.
Una figura pesante, vestita di stracci, appoggiava la sua infinita stanchezza a una sedia, posta in mezzo a una stanza che un tempo doveva essere stata una cucina. Si intuivano le sagome di una vecchia stufa, di un tavolo, di una credenza. E poi scatole, cocci, oggetti ingombranti e minutaglie smarrite nella polvere e tra le ragnatele. Nel silenzio, fruscii veloci di qualche animale (topi? lucertole?) e quel fischio, che, ora lo sentiva bene, era intervallato da sospiri e respiri affannati. “Sono qui”, disse.
Il fischio cessò. La luna sorrise.
Aglaja
SEMANA SANTA A SIVIGLIA

Piove e la notte entra senza ombre nella stanza.

Buio completo, assenza di suoni diversi dal monotono ticchettio della pioggia sui vetri.

Immobile, sospesa in questo vuoto, lascia la mente attraversare il tempo e lo spazio.

Semana Santa a Siviglia.

Penitenti incappucciati con vesti di diverso colore.

Odore di incenso fortissimo, inebriante.

Bimbi che si insinuano tra fedeli e penitenti, sgusciando tra le gambe della folla implorano: “Nazarenos! Caramelo, caramelo!!”.

Carri enormi per Madonne piangenti dai sontuosi manti ricamati. Guizzi d’oro, d’argento. Bagliori di ceri e fiaccole. Croci imponenti. Il peso straziante di una fede senza domande, sulle spalle di afasici penitenti, occhi enigmatici e piedi scalzi.

Donne in nero, le lunghe mantiglie appoggiate sugli alti pettini che fermano lucidi nodi d’ebano; tra dita febbrili, sgranano rosari preziosi: cristallo, oro, legni profumati.

Ascetiche cattedrali gotiche, opulente di interni barocchi che parlano di morte, accolgono le anime dei fedeli, con la fissità cupa dei santi in gran parata.

Cielo intensamente azzurro, sole sfavillante: aria leggera e greve, sfiora le guance e lascia un’umida carezza.

Profumo intenso di fiori d’arancio: zagare che stordiscono di sensualità.

Ovunque fiori lussureggianti, alberi giganteschi, secolari, esotici: nei parchi, nei giardini, nei patii – ombrosi e colorati di azulejas – nascosti dall’accecante candore delle case.

Strade tortuose si aprono improvvisamente su piazze e piazzette, giardini e chiese, monumenti di un passato che è morto e non lo sa.

Archi lobati, porte moresche, labirinti africani.

Occhi severi scrutano, espressioni altere valutano, pronte ad escludere, con diffidente ritrosia, o ad accogliere, con riservata cortesia.

Bianche colombe si levano improvvise: stelle cadenti nel profondo turchino della sera, nelle ombre violacee della notte. E, nella notte, chitarre piangono o ruggiscono, tacchi segnano il ritmo violento della grandine, canti esplodono improvvisi come urla di ira o di passione.

Botteghe, bazar, bettole, locande: parole e accenti distinguono un abanico soltanto gracioso da un abanico de madera de artista, entallado e pintado a mano! Gli occhi si riempiono di forme e di colori. Le dita accarezzano mantillas di pizzo, trajes per flamenco, cuir marroquì, madera taraceato, ajedrez di ogni tipo e materiale, mosaicos piccoli e grandi, guitarras lucide e sinuose, come gli occhi ed il corpo di una donna bruna che balla al loro pianto.

Un sonno inquieto spegne ogni luce, smorza ogni suono, soffoca i sensi.

E’ la notte di un inverno lunghissimo.

Aglaja

ALBUM

Pinocchio: gote arancioni naso lucido puntuto come cappello – finta mollica autentica gomma – sguardo fisso azzurro pupille sbarrate in vuoto di non esistenza. Abbinasi odore dolciastro (gomma Pirelli) percezione dimensioni alterata.

Strada: bar saracinesche vetrine portoni a memoria. Volti senza lineamenti vedono senza guardare in silenzio. Lunghi passi veloci senza grazia verso nido non pascoliano. Ciondola cinghia di cuoio rossa che trattiene (trattiene, trattiene, ancora trattiene!) libri/quaderni di scuola. Consapevolezza passaggio – punto di non ritorno.

Un qualsiasi giorno fondamentale.

Treno: percorso sferragliante sedili di legno. Mare case ponti fabbriche monti buio luce colori. Tattile memoria polverosa, analoga olfattiva sensazione. Vista acutissima con palpebre serrate.

Per dove per dove per dove?

Finestre: estranee cucine tinelli neon acciottolio di stoviglie bicchieri posate (non udito ma intuito). Sorrisi sereni sguardi semplici sinceri (non veduti ma voluti).

Entrare mille volte mentre corre vettura sulla strada.

Un uomo scende le scale e va incontro a una bambina che corre.

Per sempre.

Festa: ballo nozze battesimo smarrimento confusione [“che cosa ci faccio io qui? che cosa ci faccio io qui?”] mascelle di pietra sguardi di acciaio [“che cosa ci fa questa qui? che cosa ci fa questa qui?”]

inadeguatezza/superbia: insofferente disagio.

Giradischi: lucidi dischi fori piccoli grandi centrali 78 33 45 scricchiolii fruscii gemiti antichi ritmi jazz violini valzer dei fiori puntine saltano rigano e voce si spezza e ripete for ever for ever for ever you you you.

Penna: china nera linee decise ombre tratteggiate velocemente scric scric sulla carta sottile per riempire – presto!- vuoto bianco orrore del nulla. E occhi e nasi e bocche e figure grottesche amiche brutte bellissime senza colore.

E ancora: parole parole parole, per riempire silenzio.

Parentesi quadra: aprire. Mettere dentro [incanto felicità dolore forza consapevolezza risate lacrime speranza disperazione]. Chiudere.

Settembre: aria leggera sottile. Nuvole piccole corrono fresche in improvviso cielo turchino. “Limpido e terso limpido e terso”: mantra ossessivo: illusione di osmosi spirituale. Minuscoli granelli di zucchero sulle labbra, la lingua li raccoglie lentamente: dolcezza onnicomprensiva di un istante.

Ora: dita rosee veloci veloci su tastiera nera chiaro schermo unica fonte luminescente stanza buia.

Riporre album collezione immagini.

Ultimo scatto, adesso.

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Aglaja

DUE DONNE – Presunta tragedia in tre atti

(Questa storia nasce dalla fantasia melodrammatica di una bambina osservatrice, in una cittadina di provincia, durante gli anni ’60)

1) Avanzava per la via sempre un po’ rasente i muri, con lo sguardo sospettoso di chi conosce la cattiveria altrui. Portava di solito i radi capelli grigi sciolti, con la riga da un lato e una forcina a sollevarne una banda, chè non le cadesse sugli occhi. Talora, invece, provava a tenerli su, in un misero chignon da cui ciuffi sorcigni sbucavano sbadatamente. Era piuttosto alta, ma teneva le spalle strette e curve, come per proteggersi, e camminando procedeva rapida e furtiva, col collo proteso in avanti, pareva una tartaruga che mettesse appena fuori il capo dal guscio per studiare la situazione. Il viso appariva pallidissimo, offuscato da un velo di polvere di riso, tirato sugli zigomi sporgenti, sbiadito come le iridi acquose, di un cilestrino cieco. Paurosamente magra, sembrava sfuggire agli indumenti che indossava: tailleur spaiati, enormi su di lei, camicette consunte, con i colletti sdruciti da cui spuntava, tesissimo, quel suo collo sottile e rugoso. Ai piedi indossava sformate scarpe da tennis, quasi volesse essere pronta per una fuga improvvisa eppure preventivata.

Non era mai sola. Portava con sè una bambola, una di quelle che un tempo si acquistavano alle fiere, con quelle vesti ottocentesche, la lunga gonna a balze con sottogonne di pizzo nero che la rialzavano fino a mostrare le lucide scarpettine di vernice allacciate. La bambola appariva molto più curata di colei che accompagnava: le gote dipinte di rosa erano splendenti come i capelli sintetici, biondissimi e cotonati in un’ improbabile acconciatura; le manine che si aprivano al termine delle braccine rigidamente protese, avevano le unghiette smaltate di rosso; le labbra erano disegnate dal tratto preciso di una pennellata di carminio, che svelava il nitore di una fila di dentini perfetti; gli occhi, spalancati in una fissità azzurra, erano protetti da rigide palpepre che talora si chiudevano asimmetricamente.

La donna spesso la teneva in braccio, col viso nascosto sul petto vizzo, ma a volte preferiva metterla sdraiata o seduta su di una sgangherata carrozzina per neonati, che spingeva veloce e nervosa, e allora capitava di incrociare lo sguardo, ammiccante e attonito ad un tempo, della bambola.

Quando la stringeva a sè, le parlava fitto fitto, con un linguaggo incomprensibile, fatto più di mugolii che di parole. Pareva, dal tono, che fossero parole di rassicurazione, consolazione, ma anche di ansia, timore. Poi, improvvisamente, serrava le labbra sottili e ne usciva un qualcosa di musicale, o forse un gemito, che poteva essere una ninna nanna spaventata e spaventosa.

2) Prima ancora di vederla avvertivi il suo profumo: un odor di Coty cui si aggiungeva quello dolciastro della cipria. Il viso ne era ricoperto in abbondanza e la polvere rosata colmava i solchi delle rughe che ne devastavano la superficie. Nonostante tenesse caparbiamente le gote ritratte tra i denti (di una perfezione ostentata, come solo le dentiere osano apparire), per simulare una finezza di tratti che non possedeva, le borse gonfie sotto gli occhi, le palpebre pesanti truccate eccessivamente ed una gorgera di pelle cascante ne denunciavano la grevità somatica non solo dovuta all’età. I capelli platinati erano irrigiditi in un’acconciatura forse fuori moda ma assolutamente conforme all’insieme.

Indossava soltanto abiti neri, resi meno tetri da camicie di pizzo e foulard di seta o stole di visone sapientemente drappeggiate.  Una ventriera dalle crudeli stecche di balena, spingeva il seno generoso in un’ardita postura ad alta gittata, mentre il giro vita veniva vanamente strizzato, costringendo il grasso dei fianchi e del ventre in una tonda uniformità. Calzava decolletè nere dai tacchi a spillo vertiginosi, trampoli su cui arrancava sforzandosi di dare all’andatura un che di superbo e consapevole. Sfoggiava gioielli di gran valore – ori massicci, pietre di elevata caratura – curando che facessero sempre pendant tra loro. Li ostentava con gesti indubbiamente studiati e ripetuti molte volte, in chissà quali occasioni.

Squadrava le persone che incontrava alzando il sottile sopracciglio disegnato a matita, e in quel gesto vi era un’alterigia ridicola e insostenibile ad un tempo, proprio perchè del tutto inconsapevole della propria ridicolaggine.

Era sempre sola.

3) Erano i primi anni ’60 del ‘900, in una piccola città di provincia, dove tutti si conoscevano e dove era facile incontrarsi.

Eppure non si erano mai incrociate, fino ad un pomeriggio in cui, sbucando la donna con la bambola in tutta velocità da dietro l’angolo di un palazzo, la donna in nero ne fu travolta e subito alzò il braccio in un moto d’ira, di maestà lesa, aprì le labbra per protestare… poi rimase come sospesa, la bocca poco signorilmente aperta, il braccio ancora levato irrigidito in un gesto incompiuto.

Si fissavano. Si riconobbero al di là dell’immagine deformata di sé che si mostravano vicendevolmente.

Passò un istante infinito e brevissimo, che le trasportò lontano, a un tempo condiviso che ne aveva devastato, in modo diverso ma conseguenziale, le vite.

La donna con la bambola fu la prima a riscuotersi e, stringendo freneticamente la sua bambina al petto, mugolò, come accade negli incubi da cui non ci si sa risvegliare: “Via via, Mirella, andiamo via” e scappò spingendo altri passanti ignari e divertiti.

La donna in nero stette. Immobile. Gli occhi chiusi. Le guance lasciate cascare, come gli anni che le precipitarono sul viso. Poi tirò su le spalle e, barcollando un poco, si rimise in cammino.

La guerra era finita da vent’anni…

Aglaja

GRAZIE A TE – Sensi di colpa inutilmente ricorrenti

1999. Novembre. E’ sera. Dopo una lunga giornata di lavoro, ha appena  fatto una mega spesa alla Coop del terminal traghetti. Quando va per caricare il bagagliaio con gli acquisti, si sente apostrofare: “Signora, lascia carrello?”. Infastidita, pensa in un nanosecondo tutto il repertorio dell’esasperazione : “ecco il solito accattone, non ti lasciano mai in pace, 500 £ da me (1999: c’erano ancora le lire), 500 da un altro ed ecco la giornata fatta! ma che razza di genitori che mandano ad elemosinare i loro figli ecc.ecc.”, ma immediatamente lo reprime: anche il suo inconscio è addestrato alla political correction. Neanche si volta, impacciata com’è sotto la pioggia battente, e sbraita un “Almeno aspetta che carichi la macchina”. Non sente risposta, ma una manina le porge il pacco del detersivo. Si gira e vede un bimbo dell’età del suo, otto o nove anni, bagnato come un pulcino, vestito come in estate e magro come un chiodo, che i cenci gli si appiccicano alle costole. In silenzio, continua a porgerle la montagna di superfluo che ha comprato. Carica le merendine d’ordinanza, i giochini di Halloween, i prodotti dietetici, i formaggi d.o.p., i salumi d.o.c., le offerte speciali, gli sprechi normali, che rapido il bambino le passa. Non un sorriso, fissa qualcosa di invisibile e lontano, sempre in silenzio. Mette la mano in tasca e, tirando fuori qualche biglietto da mille, biascica un “Sei stato proprio gentile, grazie”, la tentazione di carezzare quel visino sporco è grande, ma, afferrati in fretta spiccioli e carrello, il bambino la fissa per un breve momento, poi va via sussurrando un “Grazie a te”. Avrebbe voluto – in quell’istante lunghissimo – dargli tutti quei pasticci da obesi suicidi che aveva acquistato, svuotare il suo portafogli, parlargli, telefonare al telefono azzurro, portarlo via con sé, scaldarlo con una vita diversa, con un abbraccio. Invece è salita in macchina e non ha fatto niente. Niente. Si è sgravata la coscienza con due lire. E quel bambino che, dannazione!, per giorni, rimane con lei, e non vuole andare via e che continua a fissarla e a dirle: “Grazie a te”.

2003. Natale. Naturalmente, andando spesso alla Coop, ha avuto modo di rivederlo spessissimo. Sa che è stato “adottato” dai negozianti della galleria della Coop e il cibo dei vari fast food non gli manca. E poi, non sono poche le signore intenerite che gli lasciano ben più della monetina del carrello. Lei è tra queste. Gli son stati donati vestiti caldi (per qualche tempo ha anche sfoggiato un bel giubbotto del Genoa) e scarpe robuste, che ha cambiato varie volte perché, non più denutrito, si è irrobustito ed è cresciuto. Già qualche tempo dopo il loro primo incontro, ha cominciato prima a rispondere alle sue parole, poi a guardarla negli occhi e poi persino a sorridere. Quando la vede chiede sempre “Lascia carrello?”, non più intimidito, ma con gli occhi che si illuminano. Non vuole che lei metta in macchina le sporte più pesanti e l’ aiuta a sistemare i pacchi, mentre si scambiano parole e sorrisi. E’ diventato tifoso genoano e si è fatto spiegare il significato degli adesivi che sono sulla macchina della signora. Una volta, nel suo italiano stentato, le ha detto di essere molto fiero che nel Genoa, quell’anno, giocassero suoi connazionali (è rumeno). Stasera ha voglia di confidarsi. “Volevo dirtelo: vado Romania, torna poi”. “Oh, vai a trovare i tuoi parenti?” chiede lei  “Sì”  “Ma la mamma e il papà sono qui in Italia?” “No. Io vado vedere mamma” “Ti manca” “Sì” (silenzio) “Tanto” (silenzio) “Sempre solo”.Silenzio. Lei non sa che dire e fare. Parole inutili non vengono sprecate mentre continuano a caricare la macchina. “Ciao, torno”, le promette mentre si avvia. “Fai il bravo”, risponde lei, e lo vede saltellare contento, farle ciao con la manina, mentre usa il carrello come un monopattino e lo rimette a posto.

2005. Ottobre. L’ha rivisto oggi, dopo quasi due anni. E’ molto cresciuto. E’ un uomo. Non può avere più di quattordici, quindici anni, ma è un adulto. Ha occhi sfuggenti. Non sorride più.”Lascia carrello”, le dice, con voce dura, senza alzare lo sguardo. “Aspetta, scarico e…” …te lo do, voleva dirgli, ma lui non le lascia il tempo, scrolla le spalle e va incontro a un’altra signora col carrello. Ottenutolo, si allontana veloce, le spalle contratte. Deposita il carrello, intasca l’euro e si mette a confabulare con un tizio che, se Lombroso non era un idiota, non ha esattamente l’aspetto di un galantuomo. I due vanno dietro il magazzino. Non ricompaiono più. Lei si dilunga nel caricare i pacchi, indugia prima di mettere in moto, ma niente: il ragazzo e l’altra persona non tornano. A casa, osserva suo figlio chiacchierare allegro, lo ascolta raccontare di sé e del suo piccolo mondo di molte luci e poche ombre. Lo accarezza col suo sguardo intenerito, ma, nello stesso tempo, si chiede se lei, frustrata ed inetta blateratrice di princìpi ed ideali, avrebbe potuto cambiare il destino di quell’altro bambino, se – invece di risalire ogni volta in macchina – lo avesse portato con sé, dando, per una volta, dannazione!, retta al suo cuore invece che alla stolida, indifferente rassegnazione che guida la sua vita.

2008. Gennaio. “Grazie a te”. Quelle parole ritornano ancora, ancora, ancora. Per sempre. Lui, no.

Aglaja

DENTRO LA GALLERIA

Tua madre era una prof, come la mia. La tua di lettere, la mia di matematica.

Avevano insegnato nella stessa scuola, per qualche anno: la tua mamma era una bionda molto curata, appariscente, dal carattere forte, estroverso, la mia una donna dimessa, schiva, timida e dolce. Erano entrambe ottime docenti, padrone delle rispettive materie: la tua era temuta per quel sopracciglio severo sempre pronto ad innalzarsi alla minima imprecisione, la mia amata per la sua infinita pazienza e la limpidezza dello sguardo.

Una volta, noi eravamo piccine, tua mamma invitò la mia a fare una gita, dicendo di portare anche me (erano rare, per me, le occasioni di svago, a quel tempo) non ricordo neppure dove. Ricordo però perfettamente la 500 color crema e noi due, sui sedili posteriori, abbracciate a quelli anteriori, quasi fossero un prolungamento delle nostre mamme. Tu bionda, sottile e sorridente. Io nera, paffuta e pensierosa. Tua mamma guidava piano, dolcemente: sapeva che sia tu che io pativamo la macchina e aveva cura di noi. Non so, ripeto, dove fossimo dirette (la mia memoria lo ha cancellato: rimangono soltanto tracce di mare e di gelato, e di sorrisi): di quella gita la cosa più bella era stato il viaggio in quella 500, lungo un’autostrada con lunghe (almeno così ci parevano, ricordi?) gallerie buie che ci mettevano paura. E all’imbocco di ciascuna di esse, ripetevamo – stringendoci le manine – la filastrocca sgangherata e sgrammaticata che mia mamma ci aveva insegnato “Sotto il ponte c’è tre conche, passa il lupo e non le rompe, passa il re e la regina e ne rompe una dozzina!” e alla parola “dozzina” aprivamo di colpo gli occhi che avevamo prudentemente chiuso: se la galleria era finita, bene, altrimenti, subito a ripetere il rito!

Qualche anno dopo, la tua mamma divenne la mia prof di prima media: esigente, puntuta e preparatissima. Da me pretendeva ancor più che dagli altri. Davo dieci e pretendeva venti. Non capivo, capii in seguito. Le fui grata, anni dopo.

Ci fu una gita scolastica. Ci accompagnava lei. Ti portò con sé e venne naturale, per noi, dopo anni, sederci a fianco e riprendere le chiacchiere da dove si erano interrotte. La gita ci portava da qualche parte: curiosamente, anche quella meta mi si è cancellata, la confondo con quelle di altre gite di quegli anni scolastici. Eppure, anche in questo caso, il viaggio mi è rimasto impresso, grazie a te. L’autista del pullman, questa volta, non guidava con la delicatezza di tua mamma e già dopo qualche curva avevamo cominciato a diventare verdi e, prima tu e poi io, vomitammo l’anima tra lo schifo e le risate degli altri ragazzini.

Ripulite e confortate, affogammo la nausea in ciarle e risate assortite. Buco nero della gita. Ritorno: sudate, accaldate, felici. Ancora chiacchiere. Nessuna nausea, ma mani e naso affondati in sacchetti di patatine. Briciole ovunque. Luci dai finestrini, diventano stelle filanti nella sera. Canti a squarciagola, poco a poco si spengono nella stanchezza. Buio delle gallerie, che ora non ci fanno più paura. Buio del sonno. La mia mamma e la tua mamma ci scrollano. Sono già scesi tutti. Noi ci siamo addormentate l’una con la testa sulla spalla dell’altra. Scendiamo. Ci abbracciamo. “Ci vediamo ancora, vero?” “Certo!” “Prometti?” “Prometto”.

Non ti ho vista più, fino a stasera, al tg.

“Trovata morta, nella sua casa, a … . Un colpo in pieno volto. Un biglietto d’addio, una paginetta scritta a mano, di poche righe”.

Chiudi gli occhi, Luisa, mentre attraversi la galleria. Chiudi gli occhi.

Aglaja

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 IL DISTURBO

Non se ne accorse subito.

Quando si era alzato, quella mattina, tutto gli era parso quietamente normale: una luce fredda, invernale, filtrata dalle imposte, lo aveva come sempre obnubilamente ridestato prima del suono intermittente della sveglia.

Non aveva fatto neppure troppa fatica a scaraventarsi fuori dalle coltri, anzi, l’idea di farsi un caffè caldo lo attirava assai. Ciabattò fino al bagno e quando ne uscì si sentiva proprio bene: la breve doccia lo aveva rinvigorito, non aveva lesinato col dopobarba e l’idea di presentarsi al lavoro pulito e profumato lo mise ancor più di buon umore.

Si vestì con studiata cura. Aveva notato compiaciuto che la nuova impiegata dell’archivio lo seguiva con lo sguardo (benchè, osservata a sua volta, distogliesse subito gli occhi) ogni qual volta egli portava i fascicoli da depositare. Fantasticò di frasi galanti e incontri roventi, provò persino alcune espressioni affascinanti allo specchio, alzando calcolatamente il sopracciglio sinistro e stirando le labbra in un sorriso sbieco. Si spettinò deliberatamente il ciuffo chiaro e si mandò un saluto ammiccante riflesso.

Uscì di casa.

Scese i gradini due a due, pieno di energia e di ottimismo.

La signora del primo piano, che rientrava dal giretto con Fido, lo salutò cordialmente: “Buon giorno, signor Guidi! Fa un freddo, stamattina.” “Mdjhgasdmjhg” rispose con altrettanta cordialità lui, sorridendole. “Eh?” rimase attonita la signora, ma intanto il giovane aveva già varcato il portone.

“Signore, biglietto” lo apostrofò poi il controllore sul bus. “Jghdskjdkgfjh” gli replicò allegro, porgendogli l’abbonamento. “Giovani… sempre a prendere per i fondelli la gente che lavora…” bofonchiò tra sé il controllore, allontanandosi nell’intrico di gambe in bilico e braccia appese.

Arrivato a destinazione, scese con un balzo dal bus, rinvigorito dalle sue aspettative. Entrò in ufficio e rivolse un “Shfjhgdkhdk sjdhj!” ai colleghi e una strizzata d’occhio all’impiegata dell’archivio, che – guarda caso – era dalla macchinetta del caffè dell’atrio. “Ciao, burlone” gli sorrise il vicino di scrivania, quello con cui aveva legato di più in quei due anni trascorsi nella ditta. La ragazza, invece, aggrottò la fronte e una smorfia di disappunto le piegò le labbra. “Rjyfjhdosd” confidò Guidi al collega, ma questi gli rispose un po’ seccato: “Beh, adesso basta, però!” “Hkssdhskdbdj?” ribattè meravigliato lui. “Insomma, esageri!” chiuse il discorso, irritato, l’amico, immergendosi nelle carte che affollavano la sua scrivania. Anch’egli si mise al lavoro, un po’ contrariato per quella strana reazione. Lavorò di lena fino alla pausa pranzo, intento a dipanare un problema alquanto intricato. Quindi si alzò, stiracchiandosi leggermente, un po’ intorpidito per la lunga immobilità. “Alehgwekgh” disse avviandosi verso la mensa, mentre il vicino di scrivania sbuffava. Strategicamente attese che arrivasse la ragazza dell’archivio per materializzarsi accanto a lei nella fila. “Khsldhvalhdhg hsddjhgsdjf bxcvgsdi jsdsdg”, prese a gigioneggiare brillantemente lui, ma la giovane gli rispose gelida: “Ha finito di fare il buffone?”, quindi si spostò qualche posto indietro, proprio vicino a Grillacci, quel bellimbusto da strapazzo dell’ufficio reclami.

Tutto il buonumore del mattino era ormai svanito.

Mentre tornava imbronciato alla sua scrivania, rifletteva amaramente su tutti i buoni auspici che avevano colorato il suo risveglio e che ora, inspiegabilmente, erano crollati. Chissà cosa avevano tutti, quel giorno… “GUIDI!”, lo chiamò imperiosamente il direttore, “Nel mio ufficio. SUBITO!” E adesso? Cosa c’era di nuovo? “Guidi”, iniziò il direttore, indicandogli con gesto impaziente di accomodarsi davanti a lui, “da quanto tempo lavora per noi? Un anno, due anni?” Non gli diede il tempo di rispondere che subito riprese: “Mi sono state segnalate la sua dedizione al lavoro e il modo brillante con cui ha risolto la pratica Monfino” …ah, quindi questo non ce l’aveva con lui… si sentì sollevato, mentre il direttore continuava: “e quindi voglio metterla alla prova e nello stesso tempo dimostrarle la mia fiducia, affidandole un incarico di maggiore responsabilità. Se la sente, Guidi?” “lnxcvbjshdgsh!” si affrettò a confermare l’impiegato, alzandosi di scatto in piedi e tendendo la mano al direttore. Ma questi, invece di stringergliela sorridendo, come si era aspettato, lo fissava sbalordito “Ma cosa sta borbottando?” e chi sta borbottando? si disse tra sé Guidi, ma educatatamente ripetè forte, scandendo bene le sillabe: “INX CVB JSH DGSH!” “E HA ANCHE LA FACCIA TOSTA DI URLARLI, I SUOI FARNETICAMENTI? E io che le offrivo una promozione! Ah, ma gliela farò vedere a quelli che me l’hanno segnalata…”. Vanamente Guidi cercò di calmarlo: “Kbksjdgfehglkdf, vhsfsf, sgkgkgvdhckfln”, anzi, più parlava e più il direttore si faceva paonazzo ed esagitato: “E IN QUANTO A LEI, CARO MALEDUCATO CRETINETTI, SAPPIA CHE QUI DA NOI HA CHIUSO, HA CAPITO? CHI-U-SO!! E LA PIANTI DI DIRE STRONZATE!!!!!!!!!” e quasi di peso lo scaraventò fuori dalla sua stanza.

Guidi si appoggiò barcollante alla parete del corridoio. Si osservò le mani: le lunghe dita tremavano incontrollate. Si sentiva male, la testa gli girava, non capiva più niente. Cosa stava succedendo? Cosa stava succedendo? Ripeteva tra sé e sé questa frase e intanto, sempre tremando e barcollando, tornò nel suo ufficio e si accasciò sulla scrivania. “Ehi cos’hai, stai male?” lo interrogò preoccupato il collega. Niente. Guidi non alzava il capo dalle braccia che lo nascondevano. Le spalle erano scosse da singhiozzi irrefrenabili e silenziosi. “Ma insomma cos’hai, che è successo?” insistette sempre più preoccupato l’altro. “Asdkbfhldsld jhdvdj lskhdibhd jvhaskhdhlbll!”, gli raccontò tra le lacrime il povero giovane. “Ma che vai dicendo? Insomma, basta! E’ da stamattina che farnetichi!”. Improvvisamente i singhiozzi cessarono. “lsvkbòfbfjh?” “COSA STAI DICENDO? NON TI CAPISCO! Gianni, NON TI CAPISCO PIU’!”. Senza aggiungere altro, Guidi andò al pc e fece cenno all’amico di andare al proprio. “In che senso non mi capisci?” inviò subito “Nel senso che pronunci lettere e parole senza senso” scrisse in risposta il collega “Ma io non me ne accorgo!”, si disperò in mail il primo. “Eppure è così, ti giuro!”, gli garantì in replica l’altro. Sempre attraverso la posta elettronica, Guidi raccontò cosa gli era capitato, dalla buca con la ragazza dell’archivio fino all’ira funesta che involontariamente aveva scatenato nel direttore. “Hlòdfbhh jfnb.skjfnbkjbhls” scrisse infine. L’altro alzò il capo dallo schermo ed esclamò: “Oh no! Adesso inizi anche a non sapere più scrivere! Devi andare subito da un medico, non perdere tempo. Parlerò io al direttore per spiegargli tutto”. Lo aiutò premuroso a infilarsi la giacca, gli passò una mano sul ciuffo in un imbarazzato tentativo di sistemarlo e rincuorarlo ad un tempo.

Si ritrovò così su un marciapiedi affollato, sballottato tra gente che neppure lo vedeva, che lo urtava e, vedendolo confuso e barcollante, lo pensava in preda all’alcol o agli stupefacenti.

Doveva trovare un medico, si ripeteva intontito, un medico, sì, un medico.. ma come spiegargli, come parlare, come comunicare? Fu preso dalla disperazione, e cominciò a piangere, sempre più forte, in maniera inconsulta e a urlare “Kaskdjvbaksjb! kjbhldkbhfjn-hhp! c,nksdf!!!KUGKUYFKUYDJYGDHTDVHH!!!!!!”.

“AAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHHHHH!!!!” si svegliò urlando, sudatissimo e paonazzo. Che incubo orrendo. Sbattè le palpebre per mettere a fuoco la sua camera. Una luce fredda, invernale, filtrava dalle imposte.

L’idea di farsi un caffè caldo e di dimenticare quel sogno che già andava confondendosi nella sua mente, lo attirò fuori dal letto. Ciabattò fino al bagno e quando ne uscì si sentiva proprio bene: la breve doccia lo aveva rinvigorito, non aveva lesinato col dopobarba e l’idea di presentarsi al lavoro pulito e profumato lo mise ancor più di buon umore.

Si vestì con studiata cura. Aveva notato compiaciuto che la nuova impiegata dell’archivio lo seguiva con lo sguardo (benchè, osservata a sua volta, distogliesse subito gli occhi) ogni qual volta egli portava i fascicoli da depositare. Fantasticò di frasi galanti e incontri roventi, provò persino alcune espressioni affascinanti allo specchio, alzando calcolatamente il sopracciglio sinistro e stirando le labbra in un sorriso sbieco. Si spettinò deliberatamente il ciuffo chiaro e si mandò un saluto ammiccante riflesso.

Uscì di casa.

Scese i gradini due a due, pieno di energia e di ottimismo.

La signora del primo piano, che rientrava dal giretto con Fido, lo salutò cordialmente: “Glskhlskhwriutjbdfbk!”.

Aglaja

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NIMROD

Lo notò per la prima volta una luminosa sera d’autunno.

In seguito non poté escludere che fosse stato presente anche in precedenza, ma si convinse che, proprio in quella bellissima serata – riscaldata da uno spettacolare tramonto infuocato, che si rifletteva sul monitor del suo portatile – ne avesse osservato l’inconsueta presenza.

In effetti, non le era mai capitato che un moscerino si posasse sul piccolo schermo del suo computer, senza svolazzare come tutti i bravi moscerini autunnali, ma quasi passeggiando incuriosito tra i caratteri neri delle parole che ella digitava.

Non gli prestò soverchia attenzione, sulle prime; al massimo, ricordò poi di aver provato un annoiato fastidio per quel puntino che si spostava da una lettera all’altra.

Forse, una o due volte cercò di cacciarlo soffiandolo via con delicatezza (non avrebbe mai fatto male a una mosca, figuriamoci ad un moscerino!), ma vanamente: ecco che ritornava a passeggiare tra i milioni di pixel dello schermo.

Incominciò a incuriosirsi dopo qualche sera. L’insettino sembrava incollato al suo monitor: non volava mai via di lì e camminava a sghimbescio, tra una parola e l’altra, con quelle sue sottili zampette nervose.

Sera dopo sera, lo osservava con sempre maggiore attenzione: ne studiò il corpo puntiforme, le aluzze quasi invisibili, le lunghe zampine stecchite. Cercò di individuarne gli occhi, ma era talmente minuscolo che non vi riuscì.

Attendeva, pian piano che passavano i giorni, di trovarne il cadaverino tra i tasti della tastiera, o appiccicato per sempre al vetro dello schermo.

Invano. Sembrava attenderla immobile, puntino senza significato su uno sfondo nero, ma poi, una volta illuminato dall’immenso occhio di bue di un desktop abbagliante di colori, ecco che il moscerino si animava e cominciava a percorrere, come saltellando, le immagini e i testi.

“Di che si nutrirà?” si chiedeva con materna sollecitudine. Dopo qualche settimana, arrivò al punto da sbriciolare cracker sulla scrivania, perché lui potesse alimentarsene. Lasciava un ditale colmo d’acqua accanto al mouse, perché potesse dissetarsi. Apparentemente, non fu mai toccato nulla.

“Cosa sto facendo?” si domandava, incredula di se stessa.

Lo stupore aumentò quando si sorprese a scrivergli una lettera. “Chi sei? Cosa fai nel mio computer? Perché sei qui?”.

Fu certo una banale casualità quella che spinse il moscerino a muoversi con lentezza tra le parole della lettera, posandosi con studiata lentezza ora su una vocale, ora su una consonante, quasi come se stesse… “…formando una parola! Sta formando una parola, una frase!! S-O-N-O-Q-U-I-P-E-R-T-E  ‘Sono qui per te’ Sei qui per me? Cosa vuoi?”, domandò ad alta voce, ma non le rispose che il consueto silenzio della sua casa. “Devo essere impazzita”, si vergognò tra sé, e si andò velocemente a coricare.

Ma la sera seguente, ecco che di nuovo il suo moscerino si rianimava all’accendersi del computer. Ma dove stava durante il giorno? Possibile che si rifugiasse all’interno della macchina? Chissà in quali minuscoli pertugi si infilava, quali circuiti percorreva, in quanti fili si disbrogliava…

Decise di ritentare l’esperimento. Scrisse: “Cosa vuoi?” e, sotto, tutte le lettere dell’alfabeto. Attese qualche minuto e la sua pazienza fu premiata: piano piano, come studiando uno specifico percorso, l’insetto si spostava tra i caratteri, una o più volte, componendo infine una frase di senso compiuto: “Sei sicura di volerlo sapere?”.

Lei trovò questa risposta irritante e vagamente minacciosa, quindi la ignorò, dandosi della matta, e riprese il suo lavoro.  Non riusciva però a concentrarsi e, come la sera precedente, andò prima del solito a dormire.

Trascorse qualche giorno imponendosi di ignorare le mosse del moscerino: batteva furiosamente i tasti, concentrandosi su quanto andava scrivendo, non degnando di uno sguardo le nervose zampettine che solcavano, avanti e indietro, il monitor.

Infine non resistette e digitò: “Sì, lo voglio sapere!” e poi scrisse ancora una volta le lettere dell’alfabeto. Questa volta il moscerino compose una strana parola: “Nimrod”. Che mai voleva dire? Nulla, senz’altro. La cosa, seppur la deludeva, d’altro canto la consolava: dopo tutto, era un semplice, innocuo insetto che casualmente si era posato su alcune lettere senza significato.

Alcune sere dopo, mentre stava redigendo un importante documento, sentì come se qualcuno la stesse osservando. Non c’era nessuno nella stanza, tranne lei e…”Il moscerino!” esclamò atterrita, notando per la prima volta un puntino candido che spiccava sul nero del minuscolo corpicino. “Possibile che abbia un occhio solo?” si chiese. Ancora una volta digitò l’alfabeto e, ancora una volta, muovendosi in quel suo modo strano, tutto a sghimbescio, le zampine formarono quella sconosciuta parola: “Nimrod”.

“Ma che significa?”. Quell’occhio bianco pareva ora fissarla con scherno e il letto fu nuovamente la sua via di fuga.

Il giorno seguente, si diede alla ricerca del significato di quel misterioso termine: era un nome. Lo trovò ad indicare un cd dei Green Day, un’operazione antiterrorismo dello Special Air Service britannico, una software house specializzata in emulazione software di attività umane al computer, il re che volle costruire la torre di Babele, il re assiro che… si sentì svenire.

Aveva appena letto la traduzione di un brano di Muhammed Ben Garir Tabari, storico arabo del IX secolo d.C., in cui si raccontava la fine del creatore di un grande impero: “Dio ispirò a un moscerino fra i più deboli, orbo d’un occhio e zoppo, di scendere dall’aere e posarsi sulle ginocchia di Nimrod. Costui tentò di colpire il moscerino, ma quello volò via, gli entrò nella narice, da lì risalì fino al cervello, e cominciò a mangiare. Nimrod si colpì la testa e il viso con le sue proprie mani. Ogni volta che la testa di Nimrod veniva colpita, il moscerino si fermava e non mangiava il cervello, così che quel principe aveva requie. Perciò, per diminuire i suoi dolori, bisognava dargli continuamente colpi sulla testa; appena si smetteva di colpirlo, il moscerino ricominciava a mangiare il cervello e Nimrod non aveva pace. C’era sempre una persona impegnata a colpire con qualcosa la testa di Nimrod, per procurargli un po’ di sollievo. Quel principe ordinò che venisse forgiato un martello da fabbro, e i principi, i comandanti dell’armata, e i cortigiani più intimi, quei pochi rimasti vivi, prendevano quel martello e picchiavano sulla testa di Nimrod, alternandosi l’un l’altro. Più i colpi erano forti e violenti, più Nimrod era soddisfatto. Quando cominciò a provare il tormento del moscerino, Nimrod aveva regnato per mille anni; fino a quel giorno non aveva provato alcun male. Si dice che abbia vissuto ancora quattrocento anni, con quel moscerino che gli rodeva in continuazione il cervello; e ogni giorno degli uomini si alternarono per dargli martellate sulla testa. Dopo aver vissuto mille e quattrocento anni, Nimrod morì”. [Tabari, I profeti e i re. Una storia del mondo dalla creazione a Gesù (a cura di Sergio Noja), tr.it. S. Atzeni, Guanda, Parma 1993].

Tornata a casa, armata di una bomboletta di insetticida, si precipitò nel suo studio, accendendo con precauzione il suo portatile.

Il moscerino non era più sullo schermo!!!

Guardò con circospezione tra i tasti, sul mouse.

Nulla.

Allora cominciò a spruzzare insetticida come una pazza ovunque, negli altoparlanti, dalla ventola, in ogni pertugio del computer e della stanza.

Nulla: nessun ultimo fremito di ali o di zampine, nessun cadaverino stecchito.

Nulla, se non un’emicrania sempre più fastidiosa, sempre più forte, sempre più insostenibile.

Fu quella sera che iniziò a dare testate nel muro, così forti che i vicini, gli stessi che in vent’anni non l’avevano neppure  mai salutata, allarmati chiamarono il 113.

Venne ricoverata in un centro di igiene mentale, dove si trova ancor oggi, intenta a colpirsi la testa appena la sorveglianza si allenta. Se interrogata, ripete ossessivamente una sola parola: “Nimrod, Nimrod, Nimrod!”.

Aglaja

STAZIONE RADIO LONTANA – Flusso di incoscienza

I miei bambini sono in un cassetto come i miei denti. I miei bambini morti prima di cominciare a vivere, in quel cassetto bianco, in cima agli altri. Me li prende per favore? Non posso andare fin lassù come prima, devono scendere loro, possiamo andare insieme in pasticceria per le paste del loro battesimo che non c’è stato, sa? Non c’è stato, non sono venuti, i miei bambini, sono andati via prima. Mandi via quegli uomini, la prego, mi vogliono picchiare, lo hanno già fatto tante volte, che poi è sempre la stessa, ma tornano sempre. Nel portafogli troverà la tessera: posso prendere un chilo di zucchero, lo porti a mia moglie, presto, l’aspetta, mi aspetta. Mi aspetta ancora mia moglie vero? Per questo non viene: mi aspetta. Mi aspetta a casa. La casa con la stanza grande al centro, poi di lì si va nelle camere e di lì ancora in dispensa e di lì nello stanzino buio, ma ho paura, mi porti via dallo stanzino buio. Perché tenete i miei denti nel cassetto coi miei bambini? Devo uscire, porto fuori il cane. Mi vuole bene il cane. E’ già successo che gli fanno l’iniezione? Mi sembra che gli debbano fare l’iniezione. O la dovete fare a me? Sto male, in effetti, non respiro così bene, non respiro perché ho paura, non capite? Cadono le bombe in galleria, perché la bici va così lenta? La luce è lontana. E’ quella sopra questo letto. E’ il sorriso di mia madre! Mamma! Sei qui? Non capisco cosa stai dicendo. Ho i denti nel cassetto, non posso sentirti, ma ti vedo, anche se sei diversa, sei tu. Quanta gente è venuta a trovarmi, anche lui! Allora avevo ragione che aveva vent’anni come me! Andiamo a farci fare una foto – ho il papillon!- così lo vedono tutti che abbiamo vent’anni e questa è Firenze e siamo felici, felici. Lei! perché mi costringe a inghiottire questa roba?! Non si permetta! Sono rispettato, mi deve rispettare! Disegno le locomotive, partirò presto, ne guiderò una, l’ho sempre sognato e ora lo so fare, guardi, guardi: sto andando. Venga, salti su che andiamo a Firenze. No, mi confondo, ci siamo già a Firenze, lo so che è strana, diversa, ma deve essere Firenze, è così. Gabriella, ascolta la conchiglia. Il mare sono io, non essere triste, Gabriella, ti parlo io, non sei sola. Dov’è la bambina? Che bel sorriso, signorina. Ci conosciamo? Un bel sorriso. L’ho già visto, ma ora non ricordo. Non ricordo.. Mi sembra di sentire il bagnato delle lacrime, ma non ricordo.. sono le mie o le sue, signorina? E per cosa sono? Perché soffro se ho vent’anni e sono felice? Perché non trovo l’incartamento! Mi porti subito quell’incartamento! Altrimenti non riesco a inghiottire e soffoco. Soffoco, non respiro bene. L’incartamento è nel cassetto. Aprite quel cassetto! Liberate i miei denti e miei bambini. Nell’incartamento c’è la chiave di tutto. C’è la mia locomotiva. Devo andare. Mamma.
“Ma che sta borbottando l’otto?” “Farnetica, come sempre” “Sembra una radio rotta”
Ridono.
Una stazione radio lontana.
Manda impulsi e segnali sonori.
Ma le onde si disperdono nell’atmosfera, rimbalzano e si distorcono.
Un gracchiare, un sussurro, parole interrotte, silenzio.
Fine delle trasmissioni.

Aglaja

L’OMETTO MECCANICO

Sembrava un automa. Uno di quei giocattolini meccanici che i vecchietti vendevano, anni fa, nei giorni di mercato, agli angoli delle strade, tra le tante bancarelle e le tante donne che, prese dalle carabattole esposte, spesso pestavano i giocattolini che andavano su e giù, dondolando, sul selciato.
Piccolino, un cranio lucido e bitorzoluto, camminava velocemente, a piccoli scatti. Aveva una gesticolazione breve, animata, nervosa.
Avresti giurato che , nascosta dalla camicia candida, inappuntabile, che indossava in tutte le stagioni, avesse sulla schiena la magica chiavetta azionante il meccanismo che lo metteva in moto.
Non stava mai fermo: avanti e indietro dal negozio al magazzino, poco distante dalla bottega. Sì, perché il nostro ometto lavorava in una drogheria, una di quelle vecchie drogherie di paese , dal banco di legno sormontato da una fila di panciuti recipienti di vetro –appena velati da una polvere impalpabile che, come qualche bimba curiosa scopriva, era solo una patina di zucchero- colmi di incredibili caramelle dai dolcissimi nomi: scioglimbocca, lattemiele, cioccolatte.. Quando entravi nel negozio eri sopraffatto da un profumo indefinito di sapone di Marsiglia e caramella mou, un odore che l’ometto si portava addosso da sempre.
Quanti anni avesse era proprio difficile stabilirlo, forse gli stessi anni del berrettino grigio che, nelle giornate più fredde, gli riparava la pelle tesa del capo. Scrutava le persone che varcavano la soglia di bottega, con piccoli occhi scuri e luccicanti: sembrava ridessero, ma guardandoli meglio scoprivi un sorriso fisso, come congelato in un’identica espressione fermata da sempre nello sguardo. Quegli occhietti fissavano con insistenza, seguivano pungenti tutto e tutti, soprattutto le donne, con una strana dolcezza, a volte umilmente, altre con diabolica malignità, con verginea spudoratezza, con una curiosità che chiedeva perdono. Era terribilmente gentile, così gentile che a volte imbarazzava e sentivi un nodo in gola e non sapevi spiegarti perché, o forse sentivi che con i suoi modi affabili voleva farsi perdonare per il suo aspetto, per la sua ridicola esistenza fatta di pasticche e detersivi, di scatole di latta e acqua di rose. Riusciva esageratamente facile immaginare amori non corrisposti, rassegnata emarginazione, sogni arditi e insopportabili nell’essere solo sogni, immaginati nei lunghissimi pomeriggi dietro il banco. L’ometto meccanico dallo sguardo di cane si lasciava vivere così, con stanca dolcezza, con inespressa inquietudine, correndo a piccoli scatti verso la fine.

Aglaja

VUOTO PNEUMATICO E TEDIO SINTETICO – Semantica in 5 ipotesi

Vuoto Pneumatico e Tedio Sintetico son les mots qui vont très bien ensemble, très bien ensemble.
Non vogliono dire nulla, ma danzano in me, vogliono essere risolte in un racconto. Sono giorni che mi tormentano e che mi interrogo sul loro significato.
Sono due personaggi in cerca d’autore? (Solo due: conosco i miei limiti..)
E chi possono essere?

IPOTESI 1
Cinquant’anni sullo stesso pianerottolo e “Buongiorno” “Buonasera” e poco altro (“Saluti alla signora” “Complimenti, che bella bambina!” “Per il riscaldamento..ne parliamo all’assemblea”). Il cappello sollevato con distinzione, nel saluto; il cenno educato con il capo. Mai una stretta di mano o una conversazione più confidenziale.
Poi..una moglie che va via, un’altra che muore, i figli che crescono, si sposano, si trasferiscono..
Due anziani soli in due appartamenti contigui: uno con la memoria che ormai lascia buchi orrendi (a volte consolanti, altri paurosi) e lacrime che scorrono senza ricordare perché; l’altro senza più speranze, aspettative, o attese di qualcosa (qualunque cosa) o qualcuno, abbandonato a misurare la lunghezza delle giornate, risolvibili in un unico, esasperante istante.
Due estranei, che non sanno dividere neppure l’ultima solitudine.

IPOTESI 2
Una ragazza senza amiche, forse malata, forse timida, forse troppo adulta. Riempie i lunghi pomeriggi, dopo i compiti, di letture furiose e furiose paginate di diario. E’ così orgogliosa che non accetterebbe mai di ammettere la propria solitudine come emarginazione: preferisce credere di aver scelto di farsi il vuoto intorno.
Il ragazzo apprendista nel negozio di idraulica accanto al portone dell’abitazione della ragazza, si annoia mortalmente: non ama il suo lavoro: deve farlo, deve portare soldi in casa, deve dimenticare i coetanei che ancora vanno a scuola, deve accettare la strada che gli hanno detto di fare.
Quando la ragazza esce per andare al liceo, lui è già in strada, che aspetta che arrivi il padrone ad aprire il negozio.
Spesso gli sguardi si incontrano.
Ma le loro vite non si incontreranno mai.

IPOTESI 3
Un carcerato. E’ in prigione da una vita. Dice a se stesso e a chi ha voglia di ascoltarlo, di essersene scordato il motivo. Mente, naturalmente. Ha ucciso sua madre. Era necessario, naturalmente. Non avrebbe potuto essere libero, mai, con lei in vita. E ora è libero, naturalmente. Più libero qui, in questa piccola stanza, che fuori, nel mondo, con lei.
Se solo smettesse di rimboccargli, ancora!, le coperte.
Se solo smettesse di dirgli, ancora!, di mettere ordine tra le sue cose.
Se solo smettesse di guardarlo, ancora!, con quell’espressione così dolce..

Il sorvegliante lo conosce da sempre. Quando è arrivato (“E’ una sede provvisoria..”) c’era già. Conosce i suoi occhi vuoti e cilestrini così come conosce i mille altri occhi degli altri “ospiti”. Cambiano spesso, ma sono tutti uguali. Puoi sfogliarli come un catalogo e trovi ferocia, insofferenza, rassegnazione, sfida, furbizia, sofferenza, incredulità, abulia, frenesia..
Gli occhi del sorvegliante sono invece carichi di sonno e di inerzia. Non sanno più illuminarsi né di rabbia, né di comprensione e nemmeno pazienza. Conta le settimane che lo separano alla fine della sua pena.

IPOTESI 4
Due vecchi comici di varietà: una vita a raccontare barzellette (un repertorio vasto, ma negli anni ripetitivo); recitare gag dalla comicità meccanica e, alla lunga, scontata; invidiare altri comici dalla maggior fortuna.
Entrambi erano convinti che, senza l’altro, avrebbero potuto avere una grande carriera, riscuotere un grande successo, ottenere la vera consacrazione nell’olimpo dell’arte.
Avevano anche tentato, per alcuni anni, di percorrere la strada da solisti, ma l’esito poco confortante, l’anonimato da reggere da soli invece che in coppia, li aveva poi convinti (o meglio aveva convinto il loro impresario) a tornare sui propri passi.
Si odiavano profondamente.
Il primo sosteneva di essere il cervello del duo, l’autore di tutte le migliori battute, quello che sapeva battere sull’attualità per costruire sempre nuovi sketch. Senza di lui la coppia non avrebbe mai funzionato: l’altro aveva la zucca troppo vuota per inventarsi il repertorio!
Il secondo ribatteva che la vera vis comica era la sua, che il pubblico rideva per come lui porgeva le battute, per i suoi impareggiabili tempi comici , per i suoi ridicoli ammiccamenti. Senza di lui la coppia non avrebbe mai funzionato: l’altro era troppo noioso per coinvolgere gli spettatori!
Finirono alla casa di riposo per la gente dello spettacolo insieme. A furia di girovagare e di far ridere, non avevano avuto tempo di curare gli affetti familiari e quando le ultime compagne di dispersero con gli ultimi risparmi, si ritrovarono, soli, a dividere l’ultima tournée.
Litigarono sino alla fine. Se ne andò per primo “il cervello”. Quando accadde, il “vero comico” si accorse che non c’era più scopo, non c’era più gusto, non c’era più niente.
Però era vero che conosceva i “tempi” come nessuno.
“Ex comico ottantenne si suicida alla morte dell’antica spalla”: era riuscito a rubare per l’ultima volta la scena al suo compagno.

IPOTESI 5
Il Vuoto Pneumatico e il Tedio Sintetico sono solo miei.

Aglaja

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SLOT MACHINE

“Eccola. Non ne posso più di vederla. E’ una zecca che si è attaccata al mio locale. E’ sporca. Puzza. E’ repellente. Si piazza dalla slot e non si schioda per ore. Stamattina era già lì, sul marciapiede, fingeva di guardare la vetrina del tabacchino, ma io ho capito che aspettava me. Viene tre volte al giorno, puntuale come la purga. E’ ingombrante. Fastidiosa. Un monolite. Avrei quasi voluto, ieri sera, che quei ragazzi la pestassero. Invece l’hanno solo spintonata via: “Togliti dalle palle, vecchia bagascia, rottame, puzzi di merda!” e l’hanno cacciata, finalmente, per giocare loro. E lei zitta. Si è messa in fondo, tra il bancone e la porta. Immobile. Quanto c’è stata? Un’ora? Due ore? Poi, quando quelli hanno sbaraccato, rieccola lì, a rimettere le monetine, a tirar giù la leva.. ting, sdrump, trrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr.. Niente.   ting, sdrump, trrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr.. Niente. Avanti, implacabile, finchè: dling dling dling dling dling dling!  Ed eccomela davanti, con quella facciona inespressiva,  con il suo bicchiere di cartone, zozzo come lei, pieno di gettoni. Almeno me li buttasse addosso, mi dicesse qualcosa, mi mandasse a fanculo, me, il mio bar, la mia macchinetta, i miei clienti che si scostano schifati quando le debbono passare accanto. Invece niente. Mi biascica: “caffé”, oppure: “cappuccino e brioche”. Una volta mi ha ordinato un panino al salame, con tutti quei tramezzini farciti, da sogno, che riempiono di appetito i clienti e di invidia il bar di fronte! Un’altra volta mi ha chiesto un fernet e aveva una faccia verde, quel giorno.. Mi paga con una parte dei gettoni vinti, che se mi pagasse coi soldi che invece lascia alla slot si potrebbe mangiare e bere tutta la lista del giorno! Ma il resto se lo tiene: lo lascia nel bicchiere di cartone che porta con sé e si rimette lì, ting, sdrump, trrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr.. maledetta piattola”.

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“Eccola. Sapevo di trovarla qui.  Posso entrare per la colazione o fermarmi per la pausa pranzo e sono sicura di vederla là, inchiodata davanti a quella maledetta macchina mangia soldi. Com’è gonfia.. non riesco a non fissarla. Che stupida sono, prima o poi se ne accorge.. magari è violenta e si mette a gridare e io odio le piazzate. Per me è pazza. O infelice. Mi fa pena. Sì, dev’essere infelice. Però ha un’espressione così assente, impenetrabile..  mi fa paura. Beh, sono tante le cose che mi fanno paura, ora ci manca anche che mi intimorisca questo baule semovente! E’ davvero grassa. Eppure non la vedo mai mangiare.. magari lo fa quando non ci sono, dopo tutto io mica bivacco al bar come lei! Grassa, ma soprattutto gonfia. Guarda  che caviglie! E i piedi trasbordano dalle scarpe scalcagnate, come il soufflè dalla teglia. E poi, i capelli! Dai, non puoi lasciarteli sporchi in questa maniera! E come li porta! Sembrano tagliuzzati a caso, con ciocche più lunghe, altre più corte.. Ma come fa a uscire di casa conciata in quel modo?  Scommetto che sotto quel cappotto, anche quello grigio (sarà stato quello il suo colore o è solo sporco?), grigio come i capelli, come le guance, come gli occhi cisposi, abbottonato fino al collo, ha ben poca roba. L’altro giorno spuntava dall’orlo una stoffa a fiorellini: una veste da casa? Una camicia da notte? Boh.. e come le tira ‘sto cappotto, dev’essere di almeno due taglie più piccolo. I bottoni.. sono strani, non sono adatti a un cappotto! Troppo piccoli, non van bene. Oggi le calze ce l’ha, ma l’altro giorno sono certa che fosse senza, e dire che si gelava col vento che tira qua dal Bisagno! Come fa, poi, a non accorgersi di dare fastidio? Quando c’è mercato e il bar è affollato di signore con pacchi, pacchetti e pacchettini, e di bimbi piccoli e di vecchietti infreddoliti, che tutti vogliono la brioche calda con la marmellata (mmm..) e il marocchino schiumoso e il cappuccino col cacao spruzzato e il krapfen con la crema pasticcera e il latte macchiato e, soprattutto, tutti vogliono chiacchierare in pace, posando un momento gli acquisti per terra e i piedi sotto al tavolo.. ebbene: lei è lì, immobile, ingombrante, con lo sguardo fisso ai disegni che cambiano velocissimi sulla macchinetta, avvolta nel tanfo di cui è impregnata, assolutamente impermeabile ai “permesso?” “scusi?” “permette?”  di chi vorrebbe passare. Guarda il barista, anche adesso, come la fulmina.. Ma che ora è? Accidenti, devo scappare!”

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“ Fessura. Gettone. Leva. Fessura. Gettone. Leva. Fessura. Gettone. Leva. Ciliege. Campana. Arancia. Uva. Limone. Limone. Uva. Uva. Ciliege. Arancia. Campana. Campana. Uva. Ciliege. Fessura. Gettone. Leva. Perso perso perso perso perso perso perso perso. Ancora uno, ancora questo, e questo, finisco il bicchiere, ancora uno, ne chiedo altri dieci, la prossima arriva, ancora uno. Fessura. Gettone. Leva. Limone, limone, limone!! dling dling dling dling dling dling. SI’! SI’ SI’!!!!!! Così, dai, sì, così, così!!! E’ di nuovo pieno fino all’orlo. Ancora. Fessura, gettone, leva. Ciliege, limone, uva, uva, arancia, limone. Campana. Limone. Uva. Perso perso perso perso perso perso perso perso. Al prossimo vinco. Sì, vinco. Sono viva, se al prossimo vinco. Fessura. Gettone. Leva”.

Aglaja

UN GAROFANO BIANCO

PREMESSA

Nella mia – ahimè lontana – gioventù, pure io ho fatto parte della schiera dei pendolari emeriti delle ferrovie Italiane: il percorso Savona-Genova, andata e ritorno, mi vedeva studentessa di belle speranze e di belle lettere, inquieta e curiosa della vita e delle persone.

Ospite di spartane carrozze di terza classe, promosse inopinatamente a seconda, mi piaceva studiare i passeggeri e, più di una volta, questi furono protagonisti dei tanti raccontini che scrivevo per la mia più affezionata lettrice: me stessa.

Buona parte del mio archivio di allora, purtroppo per me, è andato perduto tra i frantumi della mia vita, ma qualcosa, purtroppo per voi, non è andata persa. Eccovi, quindi, questo racconto, che ho ritrovato qualche tempo fa, scritto su un foglio a quadretti ripiegato in più parti e infilato come segnalibro tra le pagine di un tomo di Paleografia.

E’ ingenuo, sdolcinato, sentimentale, stilisticamente lezioso, ma ha un pregio: è una storia vera.

UN GAROFANO BIANCO

Come sempre, il treno era affollatissimo.

Era già rassegnata a poggiare scomodamente la schiena tra il corrimano sporco del corridoio e la porta della maleodorante toilette (anche se “lurido cesso puzzolente”, come meno elegantemente la definì in uno sbotto d’ira un passeggero dall’olfatto più raffinato dell’eloquio, renderebbe meglio l’idea del tanfo che ne proveniva), quando vide un provvidenziale posto lasciato incomprensibilmente libero in uno stracolmo scompartimento.
Formulò la rituale, scontatissima domanda: “Libero?” e senza neppure attendere risposta, sedette pesantemente, stringendo a sé la borsa e i libri.

Si guardò attorno, scrutando i suoi compagni di viaggio con quell’atteggiamento di curiosità guardinga e falsa indifferenza, che sempre assumeva in presenza di estranei.
Come sempre, in bilico tra un abissale complesso di inferiorità e un delirio narcisistico di onnipotenza, si sentì un Pirandello tra i suoi personaggi in cerca d’autore e, difatti, da personaggi più che da persone le appariva composta quella varia umanità che rendeva bollente l’aria dello scompartimento.

Più avanti, ripensando a quei momenti, si accorse, per l’appunto che, nel suo ricordo, i compagni di quell’ora sussultoria e canonica di treno le si manifestavano come vetrificati in figurine, macchiette quasi, o stereotipi, la cui essenzialità era quasi caricaturale: una grassa signora sudata, che detergeva continuamente con gesti nervosi le grosse gocce che le imperlavano fronte e tempie; un ragazzotto assonnato, dal volto devastato dall’acne rosacea, la testa ciondoloni, pronta a rialzarsi bruscamente ad ogni sobbalzo del treno; una mamma giovane, con un fardello ciangottante tra le braccia; e infine un ometto, la cui età era forse meglio definibile “sessanta ben portati” che “cinquanta passati da un pezzo”.
Di questi rammentò a lungo l’impertinenza dello sguardo, scuro e scintillante; l’ironia della bocca, contornata da un paio di baffetti sale e pepe che parevano rubati a un Buscaglione, improbabile gangster da balera; il naso rincagnato da pugile finito; le mani segnate, con grosse vene bluastre, le dita macchiate di nicotina.

Non si stupì quando l’uomo attaccò discorso.

“Non credeva, eh?, di riuscire a sedersi?” l’apostrofò questi sorridendo.
“In effetti non ci speravo proprio” rispose lei, ricambiando il sorriso.
“L’avevo notata prima, quando era già passata senza vedere il posto libero. Come fa a reggere tutti quei libri?” le chiese, ammiccando ai volumoni che teneva in bilico sulle ginocchia.
“Faccio culturismo: sa.. il peso della cultura..”. Il suo improvvido senso dell’umorismo fallì anche in quell’occasione e, di fronte al sopracciglio alzato dell’ometto, si sentì in obbligo di aggiungere: “Vado in facoltà a dare un esame”.
“Anch’io ho una figlia all’Università, Architettura. Lei?”
“Lettere”.
L’ometto trasse di tasca uno stropicciato pacchetto di Nazionali e ne accese una con gesti lenti e studiati (allora non vi era alcun divieto al proposito). Sbuffò in alto il fumo, ignorando gli sguardi seccati delle due signore, e disse, rivolto alla studentessa : “Non gliene offro perché non fuma”.
“Perbacco!” esclamò lei “Si vede così tanto?” rise.
“No, il fatto è che lei mi rammenta una persona che conoscevo bene.. ” strascinò le ultime parole in un tono sospeso, che attendeva solo il rilancio della giovane, che lo accontentò.
“Chi?”.

Non rispose direttamente alla domanda.

Volse lo sguardo al mare che correva luccicante nella cornice del finestrino. Riprese, tornando da lontano: “Non ho sempre avuto questa età, sa?” affermò, malinconicamente polemico “Mi sono accorto presto di piacere alle donne. A quattordici anni facevo all’amore con una bionda di diciotto. E come saltavo dalla finestra della sua stanza per non farmi sorprendere dal padre!” scoppiò in una rauca risata, compiaciuto.

Mentre il ragazzotto seguitava a ronfare (o ascoltava curioso?), la studentessa, il donnone sudato e la tenera mammina si scambiarono un’eloquente occhiata.

Incurante dell’alone di femminile scetticismo e disapprovazione, l’ometto continuò il suo vanaglorioso racconto: “..e quante donne mi cercavano: alte, basse, grasse, magre, bionde, more. A me andavano bene tutte”.
“Bastava respirassero?” non riuscì a trattenersi dal chiedergli sarcasticamente la ragazza.
Un ghigno allegro gli stirò le labbra ed i baffetti.
Per nulla offeso, puntualizzò: “No, bastava non fossero mai una sola alla volta: dovevano essere almeno due, così non correvo il rischio di innamorarmi sul serio”. Tossì un poco, aspirando il fumo della sigaretta. “Ne ha avuto di pazienza mia moglie ad aspettare che mettessi la testa a partito e mi decidessi a sposarla..”. Tirò giù di un dito il finestrino e gettò via la cicca. Levò di tasca un fazzoletto e si nettò la fronte. “Caldo, vero?” ammiccò rivolgendosi alla donna grassa, che non gli rispose. “Otto anni” riprese “otto lunghi anni per diventare ‘la mia signora’. Oh! ma poi, quando è divenuta tale, non le ho mai più fatto un cornino, neppure piccolo così!” mostrò l’unghia lunga e puntuta del mignolo “E in quegli otto anni non l’ho mai sfiorata, l’ho sempre rispettata”.
“Eh sì, tanto la materia prima
non le mancava, vero?” interloquì inaspettatamente la signora sudata, in tono acido.
“Infatti” ammise l’uomo con evidente soddisfazione. Poi, con un cenno del mento nella direzione della studentessa, stabilì: “E questa signorina è della stessa categoria di mia moglie: da rispettare”. Questa non fece in tempo ad imporporarsi, non sapendo come ribattere, che egli proseguì: “Come pure.. oh ma che stupido! ho fatto tutte queste chiacchiere e ho perso di vista da dove sono partito. Le stavo dicendo che lei mi ricordava una persona che conobbi tanto tempo fa: bene, questa era una ragazza che incontrai pochi mesi dopo la fine della guerra. Un fiore: alta, bruna, con delle.. beh, un bella figliuola” tagliò corto. “Non solo: era simpatica, intelligente, un sorriso che scioglieva. E gli occhi: grandi, scuri, liquidi, sempre tristi però, anche quando rideva. E con me rideva, sa? La portavo a ballare, a camminare sulla spiaggia.. A me piaceva diventare amico delle donne, prima di.. e poi c’era quel mistero degli occhi che mi incuriosiva: chissà cosa la rodeva..”.

Si interruppe.

Frugò ancora nel pacchetto delle Nazionali e ne accese lentamente un’altra. Ne aspirò profondamente il fumo e riprese: “Le piaceva essere corteggiata, andare in balera, stordirsi di musica e divertimento. Finalmente una sera pensai si potesse arrivare al dunque. Eravamo stati a ballare, lei si era scatenata, era su di giri quando la portai da me. Non fece storie, anzi, fu lei a chiedermi da bere, prima, e poi di condurla in camera da letto. Qui iniziò a spogliarsi e, nel farlo, le lacrime presero a rigarle il viso, irrefrenabili. Ero turbato, preoccupato, pensai avesse cambiato idea o si sentisse male. La fermai e con dolcezza le chiesi cosa avesse. La storia che uscì smozzicata tra i suoi singhiozzi era triste e comune a molte donne, in quel periodo: il suo fidanzato, partito per il fronte russo, non era tornato e di lui non si era saputo più nulla. Mi si aggrappò furiosamente, implorandomi di fare all’amore subito, subito! Solo così avrebbe potuto togliersi quel ragazzo dalla testa”.

Tacque e guardò pensieroso la punta rossa della sigaretta che brillava nel buio della galleria che stavano attraversando.

Poi continuò: “L’abbracciai con tutta la tenerezza di cui fui capace. Asciugai, baciandole, le sue lacrime. Dissi qualcosa, certo, ma non ricordo cosa. L’aiutai a rivestirsi e la riaccompagnai a casa”.

Si fermò e ancora si concentrò sulla sua Nazionale.

“Due anni dopo” riprese “il postino mi recapitò un pacchettino: era una scatolina che racchiudeva un garofano bianco e un biglietto: ‘Se questo garofano è candido, è anche per merito tuo’. Sei mesi dopo quella notte, infatti, il fidanzato, che si era miracolosamente salvato, era rientrato dalla Russia”.

Il silenzio era caduto nello scompartimento. L’ometto si alzò in piedi e, con il mozzicone tra i denti, biascicò: “Storie d’altri tempi!”. Rise, un po’ forzatamente, e salutò: “Io sono arrivato. Arrivederci e in bocca al lupo per il suo esame, signorina”.

La studentessa ricambiò il saluto e lo ringraziò. Quindi aprì il testo di paleografia per rivedere alcuni documenti.

Poco dopo fissava il buio di un’altra galleria.

POST SCRIPTUM: Giuro che quanto è stato rielaborato nel piccolo racconto è tutto vero: questo è quello che è avvenuto e che mi è stato raccontato.
Sembra uscito da un romanzetto Harmony, lo so. Ma se aveste visto gli occhi umidi di quell’ometto, gli avreste creduto anche voi.

Aglaja

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